venerdì 5 novembre 2010

Norvegia Svezia Finlandia

Norvegia - Svezia   Finlandia
InterRail 2008
Diario di viaggio 28 Luglio - 19 Agosto 2008



 
Tappa per tappa:
 
Milano – Londra (Aereo)
Londra – Oslo  (Aereo)
Oslo – Stavanger (Treno)
Stavanger – Bergen  (Bus)
Bergen – Myrdal (Treno)
Myrdal – Flam (Treno)
Flam – Bergen (Traghetto)
Bergen – Oslo (Treno)
Oslo – Trondheim (Treno)
Trondheim – Bodø (Treno)
Bodø – Moskenes (Traghetto)
Moskenes - Å (Bus)
Å – Svolvær (Bus)
Svolvær - Kabelvåg (Bus)
Svolvær - Narvik (Bus)
Narvik – Luleå (Treno)
Luleå – Haparanda/Tornio (Bus)
Haparanda/Tornio – Kemi (Bus)
Kemi – Kuopio (Treno)
Kuopio – Helsinki (Treno)
Helsinki – Stoccolma (Traghetto)
Stoccolma – Vienna (Aereo)
Vienna – Milano (Aereo)
 

Un sogno a lungo atteso
Il Grande Nord è terra di leggende: vi si narrano a proposito storie mirabolanti di battaglie vichinghe combattute al largo delle coste e sulle spiagge degli sventurati popoli razziati e decimati, di apparizioni di mostruosi kraken marini così grandi da essere scambiati per isole da sventurati marinai in cerca di un riparo e pronti a tirare sott'acqua qualsiasi nave con la forza dei loro devastanti tentacoli, di inverni lunghi tre volte il normale che presagiscono al Ragnarök, l'ultima battaglia degli Dei che porrà la parola fine a questo mondo dopo un’epica lotta in cui tutti si uccideranno per poi ricostruire il mondo intero dall’inizio. Il sole alla mezzanotte non tramonta mai, risalendo beffardo prima di toccare l’acqua e illuminando costantemente le rocce che si tuffano vertiginosamente in mare senza alcun preavviso, scavate nei millenni dall'acqua lentamente sciolta negli enormi e maestosi ghiacciai montani. Oppure cambia idea e per molti mesi non si mostra, preferendo mandare solo qualche flebile raggio di luce come messaggero. Queste antiche leggende non hanno mai smesso di affascinarmi profondamente fin da quando non raggiungevo il metro di altezza, facendo sorgere in me il germe dell'amore per queste lande, nato molti anni orsono e mai sopito, fino a quando non ho avuto la reale possibilità di vedere con i miei occhi e calpestare con le mie scarpe queste terre così misteriose. Ognuno sa in cuor suo quali sono i suoi sogni ed è tenuto a custodirli gelosamente finché il destino, a volte beffardo e crudele ma altre così benevolo da concederci dei regali indimenticabili, dia la possibilità di realizzarli, andando ad arricchire il nostro spirito in maniera incalcolabile. La trasformazione interna opera in ogni viaggio che sia affrontato col cuore e con lo spirito giusto, in particolare al viaggio che si fa nel luogo che si è sempre sognato e in un periodo della vita d'oro come sono i vent'anni, quando le energie fisiche e mentali sono al culmine e le speranze sono vivissime, quando si ha voglia di vedere com'è il mondo là fuori, partendo all'avventura portandosi dietro solamente uno zaino pieno dello stretto necessario e la propria voglia di esplorare mondi sempre nuovi. Ventitrè giorni in cui metterci alla prova, per chiederci se siamo ancora capaci di guardare dentro noi stessi e trovare le forze per andare avanti, per cambiare modo di giudicare il mondo all'infuori di noi, per imparare qualcosa di sconosciuto che mai si sarebbe potuto scoprire se non si fosse tentato. Questo è ciò che di meraviglioso ogni viaggio cela: non è solamente una carrellata di nuove terre che appaiono una dopo l’altra davanti agli occhi, immagazzinandosi nella memoria come il rame nei depositi, ma un momento in cui si ha la possibilità di plasmare la propria anima, non permettendole mai di diventare un insensibile pezzo di legno di fronte a ciò che le appare davanti, e costringendola a cambiare. Il cambiamento è vita, l'animale che non si evolve si estingue. O continua a vivere, ma per forza d'inerzia, senza più nulla che lo tenga in vita se non il battito ritmico e stanco di un cuore ormai esangue. Ora che sono tornato, fortunatamente vivo e vegeto, posso dire senz'ombra di dubbio di essere cambiato, attraverso questo percorso lungo, molto articolato e impegnativo, che potrà apparire estremo od ordinario in base all'esperienza di chi legge, ma in ogni caso estremamente intenso e gratificante. Solo in due, armati unicamente di carta geografica e guida turistica, nonchè di biglietto Interrail che ci permette di usufruire quasi liberamente delle linee ferroviarie ovunque in tutta Europa. Il Grande Nord aspettava impaziente, e non aveva più tempo. L'occasione era da prendere al volo, o l’ultimo treno sarebbe partito senza di noi.
 
Ansia
Siamo seduti in una delle tante aree di sosta per i passeggeri del ben conosciuto e affollato aeroporto della Malpensa, in paziente attesa del primo dei due aerei che ci porteranno fino alla capitale norvegese. Fuori dalle ampie finestre possiamo scorgere le centinaia, forse migliaia di automobili lasciate poco fa dai viaggiatori che come noi stanno trascinando i loro bagagli su dei pratici carrellini a rotelle, mettendoli uno a uno sul nastro trasportatore che li inghiotte inesorabilmente dietro le bande pendenti di plastica flessibile per portarli nei posti più disparati. Mi sento legato a loro da un invisibile ma potente filo conduttore: tutti stiamo lasciando la sicurezza della vita ordinaria per metterci in qualche modo in gioco, scegliendo ognuno la propria sfida personale, da vincere per tornare a casa con un po' più di tesori nel cuore e nella mente di quanti ne avessimo prima di partire. Mi diverto ad osservare le persone che mi passano davanti senza sosta come formiche, cercando di immaginare cosa celino in quel bagaglio così ingombrante che non passa da qualsiasi check - in ordinario e deve essere incanalato nel trasporto apposito, o in quella borsa così piccola che sembra poter contenere al massimo i vestiti per due giorni, e magari serve per un viaggio di una settimana o più. Chissà se anche gli altri si chiedono ciò guardando noi, ormai muniti solo di zainetto e seduti uno a fianco all’altro con le fattezze simili al punto da essere frequentemente scambiati per fratelli gemelli.
 
Nonostante le diverse ore di attesa che abbiamo ancora davanti, non ho voglia di mettermi a passeggiare per i saloni dell'aeroporto. Preferisco rimanere stravaccato sulla poltroncina aspettando che il luogo mi fornisca qualche stimolo per alzarmi, ma a parte il febbrile movimento dei passeggeri a venire c'è ben poco che possa risvegliare la mia ancora incredula coscienza. Per scaramanzia non voglio immaginarmi nulla di Oslo, le domande che mi frullano in testa su ciò che troverò una volta arrivato e soprattutto su come ce la caveremo vengono temporaneamente accantonate lasciando spazio ad una marcata ansia che mi prende ogni volta che devo salire su uno di questi mezzi volanti. Una tensione generale che decido di curare solo con le mie forze, calmandomi poco a poco da solo, senza affidarmi a pericolosi sedativi che non si sa mai quali strani effetti possano sortire. Va a momenti: per qualche minuto credo di essermi calmato definitivamente, per poi sentire all'improvviso una lieve fitta all'epigastrio che mi ricorda inesorabile che sono ancora a terra e che la trasvolata non è ancora cominciata.
 
In questi momenti di attesa mi chiedo se il viaggio che sto per intraprendere non possa essere l’ultimo della mia vita. Non essendo mai stato in procinto di allontanarmi da casa per così tanto tempo, senza tutto ciò a cui sono abituato, avverto una sensazione inspiegabile, come di qualcosa di conclusivo. Difficile capirne i motivi: non si tratta di un pericolo fisico o dovuto alle persone che incontrerò, e nemmeno quello dovuto a un disastro aereo: è completamente differente, posso capirlo solo io. Tutto ciò non fa che aumentare le fitte allo stomaco e i pensieri negativi che stanno lottando contro quelli positivi per avere il sopravvento, ma presto mi convinco che non sto intraprendendo un viaggio di non ritorno: sto per passare le mie tre settimane di vita più belle di sempre! Questo pensiero mi fa subito sentire molto meglio e smetto per un po’ di preoccuparmi.
 
Qualche ora dopo siamo già in volo a svariate migliaia di metri di altitudine, vedendo piano piano la città di Milano divenire sempre più piccola fino a scomparire una volta superate le nuvole. La visuale esterna è annebbiata ad intermittenza mentre l’aereo attraversa questi banchi di minutissime goccioline sospese. Nel momento del passaggio oltre le nuvole, lampi di condensa lattiginosa saettano velocissimi scomparendo dopo pochi centesimi di secondo, fino ad arrivare nuovamente nell’aria pura dove la visuale si riapre, stavolta con un pavimento di nuvole e non di terra. Ora mi rendo conto forse per la prima volta che la situazione in cui mi trovo è definitivamente irreversibile: qualsiasi ripensamento, dubbio o pentimento ormai non ha più senso, viene inghiottito dal veloce sfrecciare dell'aereo che mi porta sempre più lontano da casa alla velocità di quasi ottocento chilometri orari, cancellando ogni barlume di attaccamento alla patria e al sicuro e riparato ambiente casalingo. La gioia spazza via l’inquietudine e la paura, mi sento in una botte di ferro nonostante non sia ancora arrivato a terra. La vista dello splendido stretto della Manica, attraversato per fare scalo intermedio a Heathrow, è la prima conferma di ciò: siamo partiti solo da un’ora e già si vedono i primi frutti da collezionare. Chissà quanti altri ne seguiranno.
 
Heathrow
L’enorme aeroporto londinese è affollatissimo, colorato ovunque da pannelli luminosi di un giallo sgargiante e riempito in ogni angolo disponibile da boutiques e negozi di ogni genere. La scena di poche ore prima si ripete, ma con qualche lieve differenza: la tensione che mi attanagliava le viscere ora è completamente svanita, mi sento già arrivato a destinazione e quasi non penso al secondo aereo che prenderò di lì a non molto. Se sono sopravvissuto al primo, non potrà succedere più nulla di male. Pigramente seduti su una panchina di legno inganniamo il tempo osservando un padre che rincorre lentamente il figlioletto di pochi anni che si nasconde continuamente dietro le colonne, ingenuamente convinto di non esser visto. Paiono proprio divertirsi: non si curano di nulla di quello che hanno di fianco, nè di noi che li fissiamo, nè delle donne delle pulizie che svuotano i cestini pieni fino all'orlo a due passi da loro, nè degli altri passeggeri che a volte devono scansarsi leggermente per non essere investiti dal vivace marmocchio, nè degli avvisi all'altoparlante che annunciano l'ultima chiamata per imbarcarsi su un dato volo. Sto cominciando a ciondolare di lato con la testa, la lunga attesa mista alla monotonia dell'atmosfera di aeroporto mi sta leggermente snervando, mi distraggo nuovamente ascoltando un po' di musica quando padre e figlio se ne vanno dai dintorni delle colonne lasciandoli vuoti. Le rabbiose ed intense melodie di chitarra e basso che scaturiscono dagli auricolari accelerano notevolmente il trascorrere del tempo, fino a quando appare finalmente sul tabellone il numero del nostro terminale, a lungo scommesso tra noi. Presto siamo nuovamente allacciati strettamente alle poltrone con il sibilo delle potenti turbine che si fa sempre più forte, accelerando vertiginosamente e librandoci ancora una volta nell'aria per raggiungere finalmente la tanto agognata Oslo. Le utili televisioncine di bordo tengono traccia della posizione dell’ aereo minuto per minuto, con tanto di striscia colorata che si allunga progressivamente.
Presto sono visibili i primi accenni della notoriamente frastagliata costa nordica: sembra che qualcuno si sia divertito a sbriciolare un’enorme torta di terra, lasciando i rimasugli sul bordo a formare una cortina che avvolge la costa ancora rimasta intera. Tante, tantissime isolette, alcune minuscole altre più estese, che non lasciano nemmeno un pezzettino di litorale diritto e regolare. Osservarle è un piacere, mentre l'aereo scende al ritmo di dieci metri al secondo definendo sempre più i particolari alla nostra vista. Intravedendo i primi sprazzi di città, la curiosità sale: ora mi rifaccio la domanda che a Malpensa ho temporaneamente accantonato. Come si presenterà Oslo ai miei occhi? Sarà una meraviglia di architettura nordica da lasciare senza fiato, od un'ordinaria città senza arte nè parte?
 
Lufthavn
Le sorprese ad Oslo non mancano, a cominciare dall'aeroporto: la prima cosa che ci colpisce è un interminabile corridoio di legno da percorrere in compagnia di sorprendentemente poche persone, in un calore asfissiante dovuto alla mancanza di ricambio d'aria e al sole che trafigge i vetri da parecchie ore, implacabile. Nei pochi metri che ci separano dall'ambiente climatizzato cominciamo già a sudare abbondantemente sotto le nostre felpe pesanti, impreparati a questo sbalzo termico così severo. È dalla tarda mattinata che non possiamo uscire a respirare l'aria fresca dell'esterno: fortunatamente nel locale check – out il climatizzatore funziona e smettiamo di fondere sotto i vestiti. Gli imprevisti non sono però finiti: proprio davanti a noi nella fila c’è una numerosa famiglia di colore, probabilmente proveniente dall’Africa nera, i cui componenti devono essere chiamati tutti per nome, con conseguente grossa perdita di tempo. Alla fine il controllore di aeroporto scoppia a ridere insieme a tutta la famiglia, per quella situazione così imbarazzante. Quando la conta degli impronunciabili nomi finisce e l’ultimo corridoio è finalmente terminato, possiamo uscire: dopo ore e ore costretti al chiuso respiriamo a pieni polmoni la fresca aria esterna per ossigenarci il sangue a dovere, subito prima di iniziare a correre per prendere il primo treno appositamente istituito per fare spola dall'aeroporto fino alla città. Tra pochissimo percorrerà i quarantasette chilometri che separano i due, e non abbiamo nessuna intenzione di perdere subito il primo treno, avendo davanti un intero viaggio composto in gran parte da spostamenti su binari. Sarebbe scoraggiante cominciare male. Per fortuna saliamo a bordo poco prima che parta, e ciò lascia ben presagire per il futuro di tutta la vacanza: si sa che chi ben comincia è a metà dell’opera.
 
Oslo 
Da una prima occhiata veloce al mezzo in cui ci troviamo, vediamo subito di essere finiti in un paese molto avanzato tecnologicamente e socialmente: la carrozza è spaziosa, i vetri e i sedili sono perfettamente puliti, le indicazioni molto chiare: ogni fermata è segnalata sia a voce che a video in più lingue, scorrono informazioni supplementari, non c'è la possibilità di sbagliare nemmeno volendo. Faticosamente incastrati i nostri ingombranti bagagli tra i sedili quasi tutti vuoti, riprendiamo fiato e possiamo rilassarci godendoci dal finestrino il primo accenno dell’inconfondibile panorama norvegese: campi brulli e sterminati, ogni tanto qualche casetta rossa sperduta in cima a una collinetta, mucche al pascolo libere, con il sole che accenna appena un tramonto sull'orizzonte. Un primo momento di rilassata curiosità e di contatto con la natura locale che ci ristora un po' dalla stancante trasvolata e ci mette di ottimo umore. Osservo curiosamente tutto ciò che mi appare dal finestrino: voglio assimilare fin da subito il più possibile della Norvegia, stampandomi in mente le prime decisive immagini che saranno quelle che ricorderò in modo particolare quando tornerò a casa: ciò che si vede e si fa per la prima volta ha un sapore speciale ed irripetibile. La stazione centrale in cui arriviamo poco dopo ha un ottimo aspetto, con degli enormi tabelloni infissi a parecchi metri di altezza che segnano decine di partenze con tutte le informazioni in perfetta vista. Non c'è una carta per terra nemmeno a pagarla e tutto sembra organizzato con razionalità e senso pratico. Non abbiamo molto tempo per trovare il nostro ostello, che scopriamo essere situato a qualche chilometro dalla stazione, ovviamente da percorrere a piedi con tutto il bagaglio sulle spalle. Il mio compagno Davide, col suo ottimo senso di orientamento e una capacità straordinaria di lettura veloce delle cartine e delle guide turistiche, trova subito il nostro percorso: un paio di chilometri in tutto. Così ci incamminiamo per le vie del centro, voltando lo sguardo qua e là in preda alla prima montante curiosità. La prima impressione è contrastante: Oslo non pare molto diversa da una normale capitale europea. Sono poche le costruzioni di fattura nordica chiaramente riconoscibile, la maggior parte degli edifici è squadrata ed ordinaria. Lavori in corso ovunque, con buche aperte e montagne di ghiaia, rendono un po’ difficoltoso percorrere le stradine, costringendoci spesso a noiose deviazioni. Un tale più morto che vivo è finito dentro un cassonetto e la polizia sta cercando di tirarlo fuori con vani tentativi, fermandosi spesso per valutare le sue condizioni psicofisiche. Intersecando spesso le vuote rotaie dei tram prendiamo l’ultimo vialone in fondo al quale sta il nostro primo alloggio.
Il dormitorio si rivela abbastanza spartano ma tutto sommato accogliente. I nostri compagni di stanza sono tre uomini che viaggiano indipendenti come noi, il più giovane dei quali ha circa trent'anni: sono un cipriota, un indiano e un altro di nazionalità a noi sconosciuta ma probabilmente tedesca, dato che ha l’abitudine di bere la birra a colazione. Il cipriota, capelli molto corti ed espressione curiosa, si rivela subito molto cordiale e loquace con noi, da cui iniziamo a raccontarci un po’ le nostre aspettative di viaggio, cosa faremo domani, dove andremo dopodomani e così via, scoprendo molte analogie tra il suo programma di viaggio e il nostro. Del resto, i posti da visitare in Norvegia sono sempre gli stessi: non è uno stato così grande da permettere decine di itinerari. Ci sistemiamo alla bell'e meglio, affittando le lenzuola per non dover dormire su materassi di gommapiuma totalmente antitraspiranti e decisamente poco igienici, visto lo sporco che li copre. Appena ricevute e profumatamente pagate, tentiamo di infilare il materasso nel copriletto a tasca, con delle manovre tragicomiche che divertono non poco l’amico cipriota, intervenuto più volte per darci consigli su come operare. Dopo svariati minuti abbiamo successo e possiamo incastrare i materassi nei letti di legno per non smuoverli più.
Ormai sono quasi le undici di sera: grande la sorpresa nel leggere il quadrante dell’orologio, è ancora chiaro come di giorno! Le alte latitudini a cui ci troviamo fanno sì che d’estate il sole tardi a scomparire sotto l’orizzonte, un fenomeno davvero curioso ed inusuale. Nelle parti più settentrionali avviene il fenomeno delle “notti bianche”, che è una sorta di sole di mezzanotte incompleto: il sole tramonta, ma la luce che rimane fa sembrare la notte molto simile al giorno. Avremo modo di vederne delle belle prossimamente. Ci infiliamo sotto le spiegazzatissime lenzuola a recuperare un po’ di forze, per essere pronti a dare il meglio domani.
 
Il negozio di dolciumi
Mi sveglio decisamente poco riposato: un vicino di letto tedesco che russa è un metodo formidabile per passare una notte movimentata ed insonne. Davide ha dormito tranquillamente, senza mai svegliarsi: io me ne starei volentieri a letto per dormire adesso visto che stanotte mi sono svegliato come minimo dieci volte, ma non c’è tempo per poltrire: Oslo ci sta aspettando. Non sapendo assolutamente dove e cosa mangiare per colazione, optiamo per un negozietto che abbiamo visto en passant la sera precedente, proprio a due passi da noi, sperando di trovare qualcosa di sufficientemente nutriente per tenerci in piedi tutta la mattinata. Sembra un normale negozio di alimentari, ma entrando scopriamo che non è esattamente così: in tutte le città nordiche sono molto diffusi questi pseudo-negozi specializzati unicamente nella vendita di caramelle, dolciumi vari ripieni di cioccolato fino quasi a scoppiare, cioccolata, bibite gassate, salatini, patatine e poco altro di sano. Chi ci capitasse dentro in cerca di qualcosa di sostanzioso da consumare per pranzo, rimarrebbe decisamente deluso! Scegliamo ciò che ci sembra più innocuo: una banale aranciata. Si rivela semplicemente imbevibile: è gassata e zuccherata ad un livello tale da costringermi a buttare via la mia bottiglietta dopo solo qualche sorso, appena sufficiente a placare la sete. Non voglio certamente farmi venire un tumore allo stomaco alla mia età. Maledicendo le abitudini alimentari nordiche e contando di mangiare meglio prossimamente, ci dirigiamo finalmente verso il centro della città.
 
Oslo
La prima zona che raggiungiamo è quella portuale: su di essa si erge una strana costruzione quasi interamente bianca e lucente, che si rivela essere il prestigioso Teatro d'Opera. È l’unico edificio che colpisce seriamente il nostro sguardo, nella normalità generale nella quale niente spicca particolarmente sul resto. Ha dei gradini volutamente irregolari messi ad ampi intervalli, che spezzano la monotonia delle rampe levigate, e domina fieramente la scena marittima composta da numerosi promontori naturali e da rientranze create dall'irregolare costa norvegese. Il sole è cocente: i suoi raggi leggermente più inclinati dal cambio di latitudine sono ugualmente molto carichi di energia. Lo sentiamo presto sulla nostra pelle, iniziando a sudare copiosamente sotto i nostri maglioni scuri che assorbono moltissimo la radiazione solare riflettendone solo una percentuale infima.
Le strade sono ben fornite di piste ciclabili munite di semaforino regolatore, sottopassaggi e sovrappassaggi, dando un'aria di funzionalità e di sicurezza quasi palpabile. Anche il traffico è perfettamente scorrevole e non ci sono ingorghi di alcun tipo. I semafori per l'attraversamento pedonale sono tutti muniti di segnale acustico per i non vedenti, e non c'è automobilista che non si fermi per lasciarci passare sulle strisce zebrate. Non uno. Abituati a tutt’altro trattamento, non riusciamo a credere a ciò che vediamo, ovvero automobilisti che rallentano e si arrestano prontamente quando solo diamo l’impressione di voler tentare un attraversamento. Quando li ringraziamo agitando la mano ed affrettando il passo come da perfetta tradizione italiana, notiamo una certa sorpresa da parte loro: perché questi mi stanno ringraziando quando ho solo fatto il mio piccolo dovere civile? Ma forse non conoscono certe scene che in Italia sono la norma…
Anche dal punto di vista della criminalità, le città nordiche sono molto sicure, e non è solo una frase di circostanza scritta sulle guide turistiche: mai nessuno che ci abbia infastidito, mai una scena di violenza, mai avuto problemi con la gente del posto nè con i numerosissimi immigrati di ogni nazionalità che popolano le città, Oslo in particolare. Gli abitanti del posto sono proprio come vengono descritti: tranquilli e piuttosto riservati, ma all’occorrenza anche socievoli ed ospitali. Ho sempre pensato che sarei dovuto nascere qui in Norvegia: il mio carattere sarebbe stato molto più adatto a questa cultura.
 
La prima delle nostre numerose mete culturali programmate è il museo dei vecchi residuati bellici. La nostra benemerita carta studenti internazionale del CTS ci garantisce un cospicuo sconto sull’entrata in tutti i musei, e a prezzo ridotto possiamo ammirare una lunga fila di bombarde e cannoni ancora inquietanti nonostante non sparino più da parecchi decenni. Fanno da contorno a due impressionanti carri armati un po’ arrugginiti ma ancora integri, del peso di quasi cinquanta tonnellate l'uno come recita il pannello informativo. La bocca di fuoco è ormai dormiente ma non per questo meno minacciosa. All'interno invece v'è ogni tipo di arma da guerra esistente, dalle umili baionette fino ai potenti siluri da sottomarino, uno dei quali veramente da rimanere a bocca aperta: oltre sette metri di lunghezza per trecento chilogrammi di peso, un mostro di latta grigiastra e perfettamente liscia, dalla potenza distruttiva grande tanto quanto la sua insensatezza e la scelleratezza di chi l'ha progettato e costruito. È poi il turno di un famoso castello di epoca medioevale dagli enormi e luminosi saloni e dalle suggestive viuzze lastricate che lo circondano, immortale nella sua enorme storia che ha alle spalle. Sul lato rivolto verso il centro cittadino si stagliano fieri non pochi cannoni di colore verdognolo che sembrano puntare direttamente al porto per distruggerlo, l'effetto è molto realistico nonostante siano ovviamente solo ornamentali. Una volta camminato su ogni bastione e visitato tutto questo gioiello medioevale da cima a fondo, possiamo darci all'ozio in una delle numerose panchine nelle vicinanze, finalmente all'ombra. Siamo appena all'inizio delle nostre camminate, ma i nostri piedi fin troppo lisci e disabituati iniziano già a soffrire: le vesciche, croce di ogni viaggiatore insieme ai disturbi gastro - intestinali, stanno aspettando solamente il momento giusto per comparire e rovinarci le giornate. Escogito subito un sistema molto artigianale per eliminare il problema: il cerotto di seta bianca rimasto nelle mie tasche dopo il mio ultimo tirocinio ospedaliero nel reparto neurochirurgico si rivela eccezionale per ridurre gli attriti sulle parti più sensibili della pianta del piede e risolvere quasi radicalmente il problema. Devo però stare attento a sistemarlo senza formare pieghe, o le tali grinze potrebbero peggiorare gli strofinii e causare lesioni anche più fastidiose, ma faccio un lavoro perfetto, da vero studente infermiere al secondo anno: presto il problema è dimenticato e siamo nuovamente pronti ad affrontare lunghe camminate.
 
Passando per il lungomare troviamo lo squadrato ed altissimo municipio di mattoni rossi e il palazzo dove avviene la consegna del premio Nobèl per la pace. Non tutti i premi Nobèl vengono però consegnati qui: quelli per le materie scientifiche e letterarie vengono assegnati nella cugina Svezia. Il viale è decorato da lunghi filari di fiori colorati, mentre qualche barca a vela ormeggiata mostra i suoi alberi maestri, spogli da vele. Presto ci troviamo a camminare sul conosciuto Karl Johans Gate, il principale viale della città su cui si trovano la gran parte degli edifici storici: il Palazzo Reale ottocentesco, l'Università anch'essa dello stesso periodo, e non meno importante il Parlamento. Si tratta di un edificio molto sfarzoso e barocco, ma utilizzato dai politici nel nome dell’effettivo interesse dei propri cittadini e non solo del proprio, o se va bene del proprio gruppo di casta sociale, come succede in qualche bel Paese di cui non cito il nome ma che si può facilmente intuire. Il vialone è lungo più di un chilometro e mezzo, e alla vista dall'estremità in rilievo è semplicemente splendido: sul lato destro, quasi del tutto sgombro da edifici e palazzine, si trovano fontane dalle forme più bizzarre, aiuole di fiori variopinti, statue intervallate da chioschi gastronomici che vendono piatti tipici con ottimi profitti. Il viavai di persone è continuo, la strada non sembra mai svuotarsi, per giunta è l'ora di punta, ma la densità umana è ancora entro i limiti del sopportabile. I numerosi alberi e le panchine disposte strategicamente ci riservano un po’ di ombra e riposo, necessari periodicamente per riportarci in temperatura con il sole che si fa sempre più implacabile.
 
La gente che si incontra è di tutte le nazionalità: i norvegesi si riconoscono subito, con i loro capelli biondi e la corporatura piuttosto robusta, ma sono numerose anche le persone di carnagione scura, musulmani in quantità, frotte di giapponesi e soprattutto di italiani: come una maledizione strisciante, sentiamo dovunque ci giriamo parlare il nostro idioma, chi discretamente e senza dar fastidio a nessuno, chi così sguaiatamente da venir voglia di tagliargli la lingua. La nostra nazionalità non ci permette di lamentarci, non siamo niente in più di loro per avere il diritto di essere lì, ma arrivare in un posto distante qualche migliaio di chilometri da casa e sentire ancora parlare nella propria lingua può essere veramente seccante. In ogni caso gli italiani all’estero sono l'ultimo dei nostri problemi: le voci dei nostri connazionali passano in secondo, in terzo e progressivamente minor piano, mentre percorriamo questo ricchissimo viale, in cui ad ogni metro c'è una sorpresa nuova.
Presto sentiamo gli effetti del caldo, degli inutili vestiti pesanti che abbiamo addosso e dello stomaco che brontola senza poter essere calmato da qualche sorso d’acqua: dopo tutto questo sole e questo camminare abbiamo proprio voglia di fermarci, ma non c’è nessun posto che non appaia costosissimo. Ad un passo dal vaneggiamento, mentre giungiamo in una confluenza con densità di passanti e di venditori ambulanti elevatissima, scorgiamo per miracolo un fast food al quale ci fermiamo per un'oretta, tempo in cui sentiamo la vita rifiorire nuovamente in noi, nonostante all'interno faccia caldo tanto quanto all'esterno. Riempito lo stomaco ripartiamo cercando il Munch Museum, logicamente dedicato al grande pittore nato a Løten, nel sud della Norvegia. Contiene però solo le copie dei dipinti più famosi, come l'Urlo e la Madonna: i veri dipinti sono in un altro museo sempre qui ad Oslo. Non essendo un grande appassionato d'arte, i musei non sono il mio pane, ma non possiamo di certo perderci una delle attrazioni più famose della città. La visita passa veloce, tra i miei sguardi distratti e sfuggenti che si soffermano solo su ciò che pare straordinario a prima vista, contrapposti a quelli più attenti e prolungati del mio compagno, maggiormente avvezzo ai musei pittorici e ben più ferrato di me in materia artistica, che riesce a cogliere più sfumature nascoste che a me passano sotto gli occhi senza fermarsi. Passiamo il resto del pomeriggio stesi sull'erba del parchetto appena lì fuori, a respirare aria pulita sotto qualche frondoso albero, giocando a briscola per ingannare il tempo, senza obblighi nè doveri di alcun genere. Questo è l'aspetto più bello di un viaggio non organizzato, soprattutto se affrontato in pochi: è infinitamente più facile trovarsi d'accordo e decidere cosa fare. Non è vero nemmeno che un viaggio lungo in due persone debba esser per forza noioso: tutto dipende dalle risorse interne di ognuno, dalla capacità di recepire gli stimoli, e ovviamente da dove si va. Sicuramente il Nord non è un posto dove ci si può annoiare: troppe e troppo belle le cose da vedere e da fare. E siamo solo all’inizio, chi può immaginare cosa succederà ora della fine? Il solo pensiero infiamma di forze e di energie, la sensazione dell’ignoto è fantastica.
 
Il tedesco entra dalla porta dell’ostello con fare gongolante, pochi minuti dopo il nostro ritorno, declamando "I'm drunk and happy!", ovvero: sono ubriaco e felice. Subito dopo inizia a lamentarsi animatamente con il mite cipriota, a proposito dell’indiano che lascia sempre tutte le finestre chiuse quando esce per ultimo dalla camera. Come ci si poteva aspettare, la stanza è diventata un forno, e aleggia pure un certo odorino lieve ma persistente. La battuta del tedesco è esilarante: "Ma da dove viene questo, dall'inferno?". Risate assicurate per qualche minuto, poi piano piano torna la calma e ci troviamo a chiacchierare con il cipriota a proposito della politica italiana: vuole sapere qualcosa di questa famosa Mafia, che tipo di organizzazione sia, dove stiano le mele marce in Italia. Dopo averlo informato dell’alto livello di corruzione e collusione mafiosa dei politici nostrani, sentiamo i primi morsi della fame. Non abbiamo certamente voglia di spendere tutti i nostri risparmi per mangiare qualcosa di decente, così ripieghiamo su un minuscolo ristorantello consigliatoci dai gentilissimi gestori dell'ostello: è gestito da turchi che cucinano pizza e kebab, e che parlano a malapena l'inglese. Una pizza Margherita sarà l'ultima cibaria con una qualche parvenza di italiano che mangeremo di lì alla fine della vacanza. Dopo cena tocca di nuovo ad una camminata nell'arteria principale della città, stavolta con un'atmosfera tutta particolare: nuvoloni neri solcati da qualche raro fulmine ci fanno compagnia, ma senza pioggia. La luce è quasi irreale, sembra un'alba, ma senza sole. Seduti di spalle al Palazzo dei Congressi, con tutto il viale illuminato dritto davanti a noi che si estende a perdita d'occhio, rimaniamo fermi ad osservare senza pronunciar parola, affascinati dall’atmosfera di vita notturna che si avverte. Un tuono un po’ troppo forte ci spinge a muoverci per tornare al coperto, ma ci perdiamo nelle intricate vie del centro proprio mentre sta infuriando la parte peggiore dell'acquazzone, che ci infradicia impietosamente. Ritrovata la via giusta, rientriamo bagnati come pulcini e altrettanto sudati, crollando sui letti vergognosamente sfatti. Nessuno ha voglia di sistemarli, dovranno rimanere così solo per poco ancora…
 
Crampi
In un orario imprecisato oltre la mezzanotte vorrei seriamente alzarmi per strozzare il tedesco: sta russando anche di più della scorsa notte. Fargli il classico “pissi pissi” non serve a nulla, anzi peggiora la situazione: il russamento aumenta a livelli vertiginosi proprio mentre tento di svegliarlo con il classico sibilo. Di conseguenza passo un’altra notte disturbata, e la mattina presto voglio perlomeno fare una colazione decente. Riproviamo al solito negozietto sperando ci sia qualcosa di meglio di quelle orribili aranciate, e stavolta siamo più fortunati: c'è un distributore automatico di caffè, latte e tè che ieri non abbiamo notato. Non si capisce esattamente come funzioni, da cui i primi risultati non sono esaltanti: sforno un caffelatte terribilmente annacquato, che getto nei rifiuti riuscendo anche ad ustionarmi una mano. Quando riusciamo a produrre qualcosa di decente, paghiamo con le nostre monete norvegesi curiosamente bucate al centro e iniziamo a buttare giù tutto voluttuosamente: abbondiamo con le bustine di zucchero e contorniamo con biscotti anch’essi dall’alto tasso di saccarosio. Non l’avessimo mai fatto. Lì per lì ci sembra di stare benissimo, ma presto il corpo presenta il suo conto da pagare: appena entrati nel supermercato distante qualche centinaio di metri, sentiamo entrambi l’intestino contrarsi rabbiosamente, costringendoci a posare subito il cestino di plastica appena tolto dalla pila e a tornare precipitosamente in ostello in cerca di un bagno. Ci riprendiamo dall'attacco di diarrea dopo circa tre quarti d'ora decisamente spiacevoli, e quando ci sembra che i movimenti interni si siano placati definitivamente ritentiamo con la spesa. Stavolta abbiamo successo. Non abbiamo però molta scelta su cosa comprare: possiamo permetterci solo dei panini di gomma con la spiccata tendenza a sfaldarsi, mortadella svenuta in bustina, qualche porcheria di dolciumi e solo raramente della frutta. La qualità del cibo non è una delle nostre principali priorità: basta che ci tenga in piedi, per comprare qualcosa di più gustoso è meglio aspettare di tornare in un Paese dove la vita costa meno!
 
Opere d’arte
Dobbiamo sloggiare, il tempo per il check – out è ormai agli sgoccioli. Il cipriota ci saluta dicendo con fare amichevole "Italian Mafia is leaving!", emblematica espressione della considerazione di cui godiamo all'estero. Ricambiamo il saluto a quello che è stato uno dei nostri migliori compagni d’ostello nell’intero viaggio, e riprendiamo la via per la stazione. Depositiamo i bagagli nei lockers a pagamento e prendiamo la strada per un altro importante museo d'arte, quello in cui si trova il vero Urlo di Munch, recuperato per l'ennesima volta dopo l'ennesimo furto. Effettivamente, non è protetto da chissà quale sistema di sicurezza, ma è semplicemente appeso come tutti gli altri quadri, solo in una posizione un po’ più appartata. Essere davanti a questo quadro così famoso, presente su tutti i libri d’arte che ho comprato alle elementari, medie e superiori, non mi riempie di particolare ammirazione o curiosità. In compenso non posso fare a meno di esaltarmi quando vedo, gigantesco sul muro, la Caccia Selvaggia di Odino: il quadro di Peter Arbo a cui si è ispirato il musicista metal svedese Quorthon per la copertina di un suo album. L’orda divina rappresentata trasuda epicità da ogni pennellata, quella stessa epicità che impregna ogni composizione artistica partorita in queste terre. Tocca poi ad una carrellata di quadri naturalistici davvero fantastici che entusiasmano anche me nonostante non sia minimamente appassionato di pittura. Raffigurano paesaggi più o meno inventati dell'estremo Nord: un preludio di ciò che ci aspetta? Semplice fantasia degli artisti? Lo scopriremo tra una decina di giorni.
 
Il villaggio
Finiti i quadri, è l’ora di un deciso cambiamento di programma: un villaggio tipico norvegese, ora riadattato a museo. Casette di legno a tetto spiovente, dai colori più disparati che spaziano dal giallo al rosso vivo, fino all'azzurrino. Piccoli cortili circondati da bianche staccionate. Finestrelle anch'esse contornate di bianco e munite di tripli vetri per isolare meglio dalle rigide temperature dei mesi invernali, e rossi interni così angusti e raccolti, che lasciano a malapena lo spazio per muoversi. Fanno venire una voglia incredibile di abitarci, per la loro atmosfera così antica e suggestiva e gli spazi così piccoli che ispirano protezione e riservatezza. È davvero affascinante vedere come vivevano i norvegesi fino a non molto tempo fa, e come qualcuno vive tuttora: queste casette hanno un che di fiabesco. Una bambina vestita di abiti tradizionali sta preparando un caffè in una delle stamberghe, con la probabile madre che stende i panni fuori, anch’essa vestita come una fiera donna vichinga. Nei loro occhi chiari si legge l’attaccamento alle tradizioni che ha questa gente, che mai rinnegherebbe il suo glorioso passato e le fantastiche conquiste che ha ottenuto. La riproduzione del villaggio è organizzata ed inscenata alla perfezione: c’è da domandarsi se non vivano davvero lì. Oltre vi sono capanne su palafitte dalle strane forme oblunghe o irregolari, interamente costruite in legno scuro non verniciato. Buona parte hanno l'erba che cresce sul tetto, come se fossero emerse direttamente dal bosco selvaggio. Un divertente particolare che però ha anche un risvolto ecologico non indifferente: se tutte le case al mondo avessero l’erba sul tetto, chissà quanto ossigeno in più ci sarebbe nell’atmosfera!
Rimaniamo veramente colpiti da ciò che vediamo, e proseguiamo lungo il sentiero battuto con crescente meraviglia. Incrociamo qualche maiale che grufola allegramente nel suo cortile rotolandosi nel fango senza timore di sporcarsi, poi un socievole gatto a pelo corto che non ci teme e si lascia accarezzare fiducioso, strusciandosi sulle nostre gambe come fanno tutti i gatti per salutare gli esseri umani di cui ritengono di potersi fidare. Sono animali splendidi, racchiudono in essi qualcosa di regale, e non smetterò mai di considerarli come gli animali più belli del mondo.
 
Agli sgoccioli
Le nostre gambe stanno iniziando a dare segni di cedimento dopo tutto questo camminare senza sosta, da cui ci fermiamo all’ombra di qualche albero per mettere qualcosa sotto i denti, guardando un gruppo di bambini giocare con dei trampoli. Una panchina su cui sederci è ora un toccasana, ci rimaniamo per un’oretta, prima di partire per la prossima destinazione, da raggiungere in autobus: il museo delle navi vichinghe. In realtà è un unico stanzone in cui si trovano tre relitti di drakkar, le navi da guerra vichinghe dalla caratteristica prua a spirale, che nel caso delle navi più grandi è talvolta modellata per assumere la forma di animali mostruosi come serpenti marini e draghi, necessari per incutere timore al nemico e proteggersi dalla malvagità delle mitiche creature marittime. Pur belle che siano, nel piccolo museo non c'è altro, da cui usciamo presto per darci nuovamente al relax sull'erba. Ormai la visita di Oslo e dintorni sta volgendo al termine, ci aspetta verso tarda sera il treno per Stavanger. Via, verso la stazione, salutando questa ambigua città forse non così splendida come ce la saremmo aspettata, un po’ difficile da digerire e comprendere ma comunque dotata della sua buona fetta di fascino ed interesse.
 
Cinque ore è il tempo che dobbiamo far passare prima di prendere il notturno, un’attesa che può essere lunga per chi è abituato da tempo ad aspettare al massimo un quarto d'ora per l'autobus, o può essere brevissima per chi è abituato a viaggiare in lande sterminate dove i viaggi in treno durano giorni. In quelle ore passiamo il tempo a rielaborare ciò che abbiamo appena visto: osserviamo l'apparente freddezza degli sguardi dei nordici, i negozi con gli articoli a prezzo decisamente elevato, le fornitissime ed ubiquitarie librerie atte a soddisfare la risaputa passione degli abitanti per la lettura. Per ammazzare il tempo risaliamo sul Teatro d'Opera, rischiando costantemente di inciampare negli insidiosi gradini. Dalla cima ci godiamo un tramonto un po’ nuvoloso, e prendiamo anche qualche goccia di pioggia che inizia a cadere proprio mentre decidiamo di rientrare. La brezza si fa sempre più tesa, è meglio ripararsi al caldo.
 
Notte in treno
Questa notte dormirò per la prima volta in vita mia su di un treno, e mi sento decisamente preoccupato viste le grosse difficoltà che ho nel dormire seduto: non mi riesce assolutamente, nemmeno dopo viaggi di ore e ore in automobile o in pullman, in cui spesso sono l’unico oltre al guidatore a rimanere sveglio. In ogni caso i treni notturni ci sono molto utili, non possiamo lesinare su di essi: il risparmio che ci garantiscono in termini di notti in ostello non pagate e soprattutto di ore utili guadagnate per girare è notevole, e ciò può essere decisivo in un economia di ventitrè giorni, apparentemente numerosi ma in realtà molto compressi e talvolta incerti. Il treno finalmente arriva al quarto binario, i nostri posti prenotati alla cieca si rivelano tutto sommato comodi: gli organizzatori ci hanno gentilmente lasciato mascherina per gli occhi, coperta e tappi per le orecchie, tutto incluso nel prezzo, quasi completamente azzerato dal biglietto interrail. Il sedile si può reclinare ma non sufficientemente per stare sdraiato come vorrei, da cui mi preparo ad una notte difficile. Penso però che sarebbe potuta andarmi molto peggio: nei posti immediatamente dietro di noi gli schienali dei sedili non si possono abbassare nemmeno di un millimetro, essendo a contrasto direttamente con la parete posteriore della cabina. Il controllore passa tra i sedili subito dopo la partenza in cerca di sprovveduti senza biglietto, non trovandone nessuno, e una volta finito il suo giro le luci vengono messe in notturna. Forse questo mi aiuterà un po’ a prendere sonno, penso...
 
Niente da fare. Dopo due ore sono ancora al punto di partenza, continuo a rigirarmi nel sedile in cerca di una posizione conciliante il sonno, ma senza il benchè minimo risultato. Tuttalpiù riesco a distruggermi qualche vertebra del collo per averlo tenuto piegato di lato troppo tempo senza accorgermi della posizione scomoda. Comincio ad irritarmi, ma non ci posso fare niente. Davide, che non ha di questi problemi, si è già addormentato da un pezzo. Io mi rassegno a passare la notte in bianco, ma una piccola consolazione c'è: quella di vedere la luce del sole sotto l'orizzonte a notte inoltrata, scena che non mi era mai balzata davanti agli occhi prima d'ora. Questo spettacolo mi riscuote dall’apatia dell’accennato pre-sonno e mi allieta un po’ il viaggio: non capita tutti i giorni di vedere la luce a quest’ora, seppur lieve ed accennata. Il sole è nascosto dietro le montagne, ma non è lontano…i suoi tenui raggi creano un’aura di colori sbiaditi attorno alle creste delle montagne, un altro momento che mi si scolpisce in mente e che se avessi dormito mi sarei perso.
Intanto arrivano le ore piccole. Gli sbadigli si fanno sempre più frequenti ed estenuanti, la voglia di addormentarmi aumenta. Il sonno a tratti è addirittura violento, ma non ce n'è: la posizione semiseduta rovina tutti i miei sforzi, sia che tenti di rilassarmi e non pensare a niente, sia che ricerchi la posizione più comoda in un continuo rigirarsi senza tregua. Il massimo che riesco a fare è cadere in uno stato di trance che potrei definire come dormiveglia profondo, ma che non diventa mai sonno vero, se non per pochissimi insignificanti minuti, di cui non ho memoria nè certezza. La notte passa lentamente, ma passa, come le lunghe notti in ospedale che alle sei di mattina finalmente finiscono...e alle sette l’agonia termina. Siamo arrivati.
 
Stavanger 
Questa cittadina di oltre centomila abitanti è famosa per la fiorente industria petrolifera che ospita, ma non offre alcuna attrazione turistica di rilievo. L’unica cosa che abbia una parvenza artistica è un simpatico laghetto circolare posto proprio di fronte all’uscita della stazione che stiamo attraversando in questo momento, ancora un po’ disorientati e infastiditi dallo sbalzo di temperatura con l’esterno. Una fontanella posta proprio al centro del laghetto spruzza acqua in ogni direzione, costantemente. Non abbiamo tempo di osservare la scena, dobbiamo trovare in fretta un ufficio informazioni: solo lì ci potranno dire dove si trova il nostro ostello prenotato in anticipo, e soprattutto come dobbiamo fare per effettuare la gita al Preikestolen, il vero motivo per cui siamo qui. Tradotto in italiano come “Roccia Pulpito”, si tratta di una mastodontica roccia a forma di parallelepipedo, strapiombante per seicento metri sull’oceano Atlantico. Una meraviglia di architettura naturale ed una tappa irrinunciabile per qualsiasi viaggiatore che approdi in Norvegia. La febbre della conquista brucia in noi, ansiosi come siamo di conquistare anche questa meta, ma le cose iniziano ad andare storte: orientarsi a Stavanger, della quale non sappiamo nulla, non è per niente facile, e il tempo a nostra disposizione è fin dall'inizio molto scarso. Non possiamo certo tentare la salita alla Roccia con gli zaini pesanti sulle spalle, nemmeno nel più sconsiderato impeto di spirito d'avventura estrema. Non arriveremmo in cima vivi portandoci dietro tutti i vestiti, le guide turistiche e gli accessori per l’igiene, lì completamente inutili. Così dobbiamo lasciarli in ostello od in alternativa nelle casseforti della stazione dei traghetti, di cui ignoriamo l’ubicazione. Calcolando male i rischi optiamo per il deposito in ostello, decisamente lontano e irraggiungibile a piedi dalla stazione. Per arrivarci bisogna prendere uno dei numerosi bus urbani che servono il paese in ogni angolo, per poi logicamente riprendere lo stesso bus e tornare indietro...un piano azzardato e rischioso.
 
Con una veloce puntatina al per nulla vicino ufficio informazioni, e con il successivo aiuto di un autista di pullman fermo sul ciglio della strada, riusciamo a trovare la fermata giusta per raggiungere l’ostello. Lì incontriamo una signora che parla italiano, infatti arriva da Chiasso, pochissimo oltre al confine tra Svizzera ed Italia: è proprio vero che il mondo è piccolo! Dopo averci parlato dei suoi parenti che abitano all'isola d'Elba, nemmeno troppo distante dal paesino di nome Lacona in cui sono stato un paio di volte in vacanza e che lei conosce, ci chiede la nostra destinazione: essendo abitante del posto da tantissimi anni, ci può dare delle informazioni molto utili su come muoversi in paese e su quali fermate preferire per il nostro programma. La ringraziamo moltissimo per il vitale aiuto e scendiamo alla fermata da lei indicata, la terza dopo che lei ha abbandonato l’autobus. Il problema è che di quest'ostello non v'è nemmeno l'ombra, vediamo solo un camping coperto in ogni centimetro quadrato da tende e roulotte, con alcune case in legno ancora in fase di tinteggiatura. La reception è chiusa, aprirà di lì a cinque minuti stando a ciò che recita il cartello affisso sull’entrata. Ci sono un po’ di persone che stanno aspettando fuori, con l'aria seccata: saranno anche loro clienti dell'ostello che stanno cercando? Sarà veramente la reception dell'ostello quella? Non possiamo saperlo finchè non apre, ed il tempo utile per prendere il traghetto è sempre più agli sgoccioli. Non sappiamo assolutamente cosa fare e ci sta salendo una spiacevole ansia: è meglio rimanere lì in attesa ancora cinque minuti o forse più fino all’apertura della reception, o tornare immediatamente alla fermata del bus e riprendere la via della stazione, lasciando i bagagli nelle casseforti apposite per poi prendere subito il traghetto? Non abbiamo molto tempo per decidere in modo ponderato, per cui tentiamo la fortuna scegliendo la soluzione più immediata, ripartire subito. Il bus dal quale siamo scesi poco prima tarda solo qualche minuto ad arrivare, ma quei minuti potrebbero fare la differenza tra salire sul traghetto e vederselo passare davanti. Quando finalmente lo scorgiamo percorrere senza troppa fretta le curve in cima alla strada, dirigendosi verso di noi col motore che ansima e borbotta, saliamo e scopriamo con sorpresa che c'è a bordo la stessa signora di prima. Andiamo subito a spiegarle la situazione, e lei vedendoci in difficoltà si offre di portarci i bagagli nell'albergo della zona, dove lavora da trent'anni, cosicchè potessimo finalmente liberarci di quei fardelli e partire immediatamente. L’offerta è allettante, ci teniamo veramente a prendere la coincidenza giusta, avendo già calcolato che la successiva avrebbe causato enormi problemi di tempistiche probabilmente rovinandoci la giornata. Ci consultiamo per un attimo tra di noi, ma uno sguardo diffidente di Davide mi convince che per quanto l'anziana signora si mostri gentile e disponibile ad aiutarci e molto probabilmente non sia intenzionata a derubarci, non possiamo fidarci a lasciare in mano i nostri bagagli a quella che è pur sempre un'estranea. Che ne sappiamo poi della fine che avrebbero fatto? Al che rifiutiamo gentilmente ma con decisione, ignorandola quando profetizza che probabilmente perderemo il traghetto.
 
Una volta scesi dal bus inizia la corsa folle per raggiungere la stazione navale, fortunatamente poco distante da quella ferroviaria, dove sistemiamo i bagagli in fretta e furia cercando febbrilmente le monetine da inserire per poter chiudere a chiave. Ripartiamo a razzo verso la biglietteria davanti alla quale siamo appena passati correndo, già convinti di essere arrivati troppo tardi. Scopriamo invece che il nostro traghetto arriverà tra ben tre quarti d'ora e non a momenti come pensavamo fino ad un attimo fa. Quello delle nove in punto appartiene ad un'altra compagnia navale che non c'entra con noi. Accidenti alle informazioni sbagliate! Tanta fatica per niente, ma almeno possiamo tirare un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo, nonché fare una colazione decente nel tempo che ci separa dalla partenza. Decente significa qualche tossico biscotto all'amarena con del succo di frutta appena meno disgustoso di quello preso a Oslo, che finisce anche lui allegramente nel cestino dopo qualche stentato sorso. Inutile ogni tentativo di farselo piacere, è veramente ripugnante. Vorrei strozzare i nordici che riescono senza problemi a bere quel liquame di fogna, propinandocelo come "succo di frutta 100% naturale".
 
Tau  
Consumata anche questa poco appetibile colazione, è tempo di prendere il traghetto per Tau che tanto abbiamo temuto di perdere irrimediabilmente: la traversata non ha niente di particolarmente interessante, a parte gli isolotti completamente disabitati e sperduti in mezzo al mare che sembrano apparsi dal nulla tanto sono apparentemente fuori posto. Il sole batte forte anche oggi, si prospetta una splendida giornata. Siamo felicissimi di essere riusciti a prendere il traghetto della mattina, l’energia è salita di nuovo a livelli stellari e siamo pronti ad affrontare le due ore e mezzo di salita necessarie per posare i piedi sulla rude roccia granitica che regna incontrastata sul Lysefjord.
 
Un’ora dopo il traghetto approda dove un autobus è fermo ad aspettare dei passeggeri, ma non è ancora il nostro. La folla di persone è abbastanza consistente, nessuno sale sull’altro autobus da cui capiamo che stanno tutti puntando alla Roccia, come noi ora. Un quarto d’ora dopo arriva il pullman giusto, con l’aria condizionata a mille causa la temperatura afosa: sistematici negli ultimi due posti disponibili, percorriamo venticinque minuti di strada montana popolata da casette bianche e da cespugli di fiori di ogni colore, con uno sfondo di montagne frastagliate ed aguzze nel quale cerchiamo di individuare la nostra Roccia, senza successo: non si può vedere da lì. L’autobus fatica a salire sui tornanti, appesantito dal pieno carico, ma se la cava egregiamente portandoci nell’area di ristoro allestita appositamente per i turisti che puntano alla scalata dei fiordi. Il parcheggio è enorme, data la mole di visitatori che raggiunge questo sito in massa ogni estate, con ogni mezzo. Usciti dall’autobus non perdiamo tempo e puntiamo subito verso il cartello che segna inequivocabilmente l’inizio del sentiero: Preikestolen, da quella parte.
La salita
Armati di scarpe da trekking e di spirito di avventura e conquista, iniziamo la salita su questo sentiero che inizialmente sembra ben tracciato e livellato. Presumiamo una salita ordinaria, in cui fare affidamento soltanto sul fiato e sulla buona volontà di arrivare presto in cima. Sulla destra possiamo scorgere gli ultimi lembi di oceano che sono penetrati fino a qui serpeggiando in mezzo alle montagne, è veramente paradossale vedere il mare confinare direttamente con esse, ma in Norvegia questo paesaggio è la norma, anche se per i nostri occhi è ancora troppo presto per farci l’abitudine. I miei scarponcini sono forse un po’ troppo nuovi e poco collaudati per risultare comodi e inoffensivi per i piedi, ma non posso certo stare a badare a queste sottigliezze: è probabilmente l’unico giorno in cui sono necessari e non voglio certo tornare a casa senza averli mai messi una volta.
I primi dieci minuti fila tutto liscio come l’olio, ma il nostro ottimismo è presto intaccato da una poco incoraggiante rivelazione: finito il primo tratto ci rendiamo conto che il sentiero è completamente diverso da quello che appariva. Consiste ora quasi interamente in massi e rocce irregolari che tappezzano completamente la strada, fastidiosissimi quando ci si cammina sopra. Tutte queste rocce sono ovviamente da scavalcare, poggiando il piede nel posto giusto, stando attenti a non sbilanciarsi e a non caricare il peso su una roccia instabile che si muove e ti fa rischiare di capitombolare all'indietro, e soprattutto a non causarsi qualche fatale distorsione alla caviglia che sarebbe un problema veramente difficile da gestire, specie se occorsa più avanti nel percorso. I piedi iniziano subito a soffrire per quel sentiero così aspro ed irregolare, il fiato non ci manca ma la natura della strada rende tutto doppiamente arduo. Come se non bastasse, il percorso è popolato da centinaia di persone che intralciano il percorso a noi tanto quanto noi lo intralciamo a loro: sono tantissimi quelli che come noi stanno tentando la scalata alla mitica roccia. La maggior parte di questi sono, manco a farlo apposta, italiani, da cui sentiamo ancora ovunque le voci che parlano la nostra lingua, questa volta dandoci molto meno fastidio: la concentrazione è tutta dedicata al mettere un piede davanti all’altro.
 
Alterniamo momenti di accelerazioni furiose a testa bassa, stufi di non vedere mai un punto di arrivo, con altri di camminata enormemente rallentata per un colpo di fatica. Ogni crinale roccioso sembra essere l'ultimo ma poi si scopre che ce n'è ancora un altro identico da raggiungere prima di arrivare in cima. La strada inoltre non è una salita uniforme ma è un continuo e imprevedibile saliscendi che mette a dura prova i piedi dentro le scarpe già scomode, costretti prima a volgersi in un senso e poi nell'altro, senza potersi abituare ad un andatura regolare. Solo raramente godiamo di un po’ di sollievo quando nelle (rare) parti pianeggianti ci sono dei ponticelli in legno fissati sul terreno misto tra l'erboso e il paludoso, ma è un sollievo di breve durata, in men che non si dica siamo di nuovo in mezzo ai sassi. Quando finalmente il tremendo sentiero pietroso finisce, passo dopo passo e un'imprecazione dietro l'altra, lo scenario varia: ora non c'è più nemmeno un sentiero vero e proprio, ci sono solo rocce larghissime e discretamente piatte dalle quali bisogna continuamente scendere e salire, con alcuni punti in cui vanno letteralmente scalate dal basso prendendo lo sprint per non fermarsi a metà. Spesso sbagliamo strada finendo in vicoli ciechi che terminano in un laghetto, e dobbiamo ritornare indietro di qualche metro, relativamente breve ma reso insopportabile dalla fatica che tende a farci risparmiare anche il più piccolo sforzo inutile. Le rocce sono tutte (e dico tutte) inclinate da un lato, cosicchè il piede non si trova mai dritto ma si flette costantemente ora a destra ora a sinistra, col rischio di distorsioni altissimo e come minimo un dolore assurdo alle caviglie, irritate dal bordo della scarpa. Nessuno attorno ha un'idea precisa di dove sia il sentiero giusto, vediamo la massa di persone aprirsi a ventaglio ognuno cercando la via più facile in un posto diverso, solo pochi riescono a trovare una via agevole, e non siamo tra questi. L'intera scena montana è condita da limpidi laghetti dallo scuro fondale, veramente suggestivi. In essi, alcuni temerari stanno facendo dei rigeneranti pediluvi alla temperatura di forse quattro o cinque gradi centigradi, non li imito nonostante la tentazione si faccia sentire. Si vedono specchi d’acqua in lontananza anche sulle montagne vicine, per metà rocciose e per l’altra boscose. Questi laghetti sono circondati dai pini che paiono minacciarli, tutti in cerchio armati di spine e frasche. L’insolito paesaggio contribuisce a lenire un po’ la fatica dell'ascesa, esacerbata dalla scarsità di acqua che ci costringe ad un razionamento severo. Passiamo continuamente da vaste zone completamente in ombra, dove senza maglione si muore di freddo, a zone esposte al sole cocente tenuto a bada molto poco dal cielo che solo in alcuni piccole porzioni è a pecorelle, mentre per il resto è completamente sgombro. Togliamo e rimettiamo ogni tanto il maglione pesante, finchè ci stanchiamo e decidiamo di sbarazzarcene una volta per tutte, in barba al freddo e al vento che contrastiamo col riscaldamento prodotto dai nostri muscoli in piena attività. La faccenda inizia a farsi stressante, ci stiamo preoccupando seriamente sulla distanza che ci rimane da percorrere: ogni volta che troviamo un cartello indicativo scopriamo di essere ben più indietro di quanto pensassimo, traditi dalla morfologia del percorso che fa sembrare molto più lunghi i tratti percorsi quando in realtà si sono fatte poche decine di metri. Tutt'a un tratto passiamo sul fianco della montagna dove ci sono tanti ponticelli di legno collegati tra di loro intervallati a rocce sporgenti, e da lì si inizia ad intravedere in lontananza la fine della montagna, il che ci dà nuova forza per continuare. Non possiamo mollare ora che siamo così vicini.
 
I primi strapiombi
Dopo altri trenta minuti buoni di scarpinata, coi piedi sempre più doloranti e macerati nel sudore, raggiungiamo tutto d’un tratto il primo punto in cui la montagna dà a picco sul mare: è impossibile esprimere cosa si prova a trovarsi in un luogo del genere. Lo strettissimo sentiero fiancheggiato dalla roccia da una parte e la vista a strapiombo col mare dall'altra, con ai bordi della stradina soltanto della scivolosa e traditrice erba a fungere da ciglio, fanno una certa impressione, anche se la paura di ruzzolare di sotto non mi sfiora nemmeno per un istante, così come non accuso vertigini che un tempo mi prendevano al trovarmi in un luogo particolarmente alto. La bellezza del panorama attorno e l'emozione di essere lì, finalmente, sovrastano qualsiasi paura e sensazione fisica sgradevole. La stanchezza e i dolori ai piedi non si sentono più, sono come temporaneamente svaniti. Rallentiamo il passo per goderci meglio questi spettacolari paesaggi e per assaporare fino in fondo il brivido dell’emozione. Distogliendo lo sguardo dall’acqua in basso, vediamo a perdita d’occhio le catene montuose estendersi, magnificate da un cielo terso e illuminato dal sole ora non più nemico dispensatore di raggi malefici. Man mano che ci avviciniamo alla meta vera e propria, lontana solo poche decine di metri da noi, gli strapiombi si fanno sempre più netti e paurosi. La densità di popolazione è sempre più alta, ed ormai la stanchezza non ha più alcun senso: le gambe ritrovano una rinnovata forza e spingono con forza senza più sentire alcuna fatica, finchè il sentiero finalmente si appiattisce e ci rendiamo conto di essere arrivati sullo spiazzo finale. La Roccia è conquistata.
 
Sulla Roccia
Mi fermo per qualche secondo a digerire la strana e quasi irreale situazione in cui mi trovo: sono su un blocco di granito quasi perfettamente liscio e verticale che si getta a precipizio in quello che sembra un grosso fiume ma in realtà è l’Oceano Atlantico. Esso serpeggia tra le due catene montuose che si fronteggiano fieramente, dividendole in due riempiendo le vallate che una volta erano asciutte. Le pareti laterali di questa roccia sono completamente sgombre da vegetazione, nessun free climber per quanto esperto ci potrebbe salire. Qualche traghetto solitario carico di turisti solca lentamente le acque, lasciando un'appena visibile scia di schiuma bianca dietro di sé. Sembra così piccolo a guardarlo da lassù, e anche il resto del mondo sembra così infimo ed insignificante da quella posizione privilegiata. Lassù niente altro aveva importanza. Nel cielo ora ci sono pochissime nubi, il paesaggio è qualcosa di irripetibile. Davanti a me un limite nettissimo, una linea retta divide la fine della montagna dall’inizio dell’acqua ben seicento metri più in basso, limite al quale mi avvicino prudentemente sdraiato bocconi onde evitare una fatale sincope da vertigine. L’emozione raggiunge il climax: la mancanza assoluta di protezioni e la visuale diretta sul fiordo da quell’altura lascia sensazioni indescrivibili. È davvero incredibile pensare a come la natura abbia potuto produrre un luogo di una bellezza così straordinaria, sapendo che è tutto unicamente effetto dell'erosione dell'acqua sciolta nei ghiacciai, che poi è andata a riempire le vallate sottostanti, millennio dopo millennio, pazientemente e senza mai stancarsi, con la forza della perseveranza che solo la natura possiede e che gli uomini invidiano.
Le persone che sono attorno a noi non fanno che vociare concitatamente, in tutte le lingue possibili e immaginabili, ma non me ne curo. Mi siedo sul bordo laterale della Roccia, ammirando un contrafforte che mi sovrasta sulla destra, e lasciandomi cullare dai riflessi del sole sull’acqua che si muove tutte quelle centinaia di metri sotto di me. In certi punti il sole forma delle strane figure sull’acqua, sembrano veri e propri disegni impressi sulla superficie. Guardando giù mi sento come invulnerabile: io sono lassù e il resto del mondo è lì in basso. Una sensazione fantastica. Ci rilassiamo finalmente tutti e due, in silenziosa estasi contemplativa.
 
La discesa
La fatica muscolare richiede però di essere smaltita, e lo stomaco di essere riempito nuovamente: in mezzo alla piana rocciosa facciamo uno spuntino decisamente spartano, più qualche barretta energetica per aiutarci nella discesa, che immaginiamo non più semplice della salita. Rifare al contrario tutti quegli improbabili sentieri, con la stanchezza accumulata e non del tutto smaltita dal breve riposo, non si prospetta un gioco da ragazzi. L'unico aiuto è dato da qualche barretta energetica ed un panino ingurgitati prima di scendere, dobbiamo farceli bastare perché non abbiamo altro. Vediamo diverse persone che si tolgono le calze per mettere i cerotti antivescica sulle piante dei piedi, esattamente come ho fatto io prima di partire: per chi ha i piedi che tendono a ferirsi e vescicarsi facilmente, quel sentiero non perdona. Oltretutto l’acqua è agli sgoccioli, dobbiamo usarla con parsimonia per evitare di trovarci a metà sentiero con la gola arsa e solo poche inservibili gocce sul fondo della bottiglietta di plastica.
Cominciamo a scendere lentamente, tastando prudentemente ogni roccia per evitare di sentire l'ingravescente dolore ai lati del piede, causato dai continui spostamenti laterali della caviglia quando camminiamo su rocce inclinate. Mano a mano che scendiamo, ci sentiamo decisamente più fortunati rispetto a chi incontriamo mentre sta ancora salendo, e per nessuna ragione al mondo vorremmo essere al loro posto, anche se ciò significherebbe vedere quello splendido spettacolo ancora una volta. Ora che non c’è più febbre di conquista ad infiammarci, avendo raggiunto il nostro obiettivo, sopportare la fatica e i dolori è meno facile. Ripercorriamo lo stesso sentiero al contrario, fermandoci spesso per bere e constatando che probabilmente l’acqua non basterà fino alla fine. In un tratto boscoso dove la sete è di nuovo incoercibile ci consultiamo per un attimo su cosa sia meglio fare: vuotare subito quel che rimane della bottiglia, facendosi durare il più possibile gli ultimi sorsi, o tenere il fondo per emergenza? Scegliamo il tutto e subito, vuotando la bottiglietta in pochi sorsi. Da quel momento non parliamo più per risparmiare le energie e non far inaridire la gola, respiriamo solo col naso e soffriamo in silenzio sulle rocce aguzze che ci fanno prendere continuamente delle lievi ma fastidiosissime distorsioni alle caviglie. Il silenzio viene rotto solo da qualche rara imprecazione quando troviamo il masso scivoloso e traditore che ci fa cadere col sedere per terra o quasi. A scendere impieghiamo quasi lo stesso tempo che abbiamo speso per salire, la consapevolezza che ogni passo ci porta più vicino alla salvezza ci aiuta un po’, ma ad un certo punto darei veramente tutto quello che ho pur di essere già in fondo al percorso. Ma come ogni brutto momento che non è mai eterno perché presagisce sempre ad una schiarita, passa anche questo calvario: lentamente ma costantemente, passo dopo passo e una fitta dolorosa dopo l'altra, tastiamo di nuovo con i piedi il suolo asfaltato, che ci sembra una manna dal cielo. La non poca sete residua viene curata immediatamente con un gelato, forse il più buono e rigenerante della mia vita date le circostanze. Completamente senza forze e coi piedi distrutti, saliamo sull'autobus che arriva a prenderci dopo una mezzoretta, ci sediamo e vorremmo rimanere lì in eterno, esausti. Ma in fondo siamo indescrivibilmente felici per ciò che siamo appena riusciti a compiere, trovando anche la giornata perfetta per ammirare appieno uno spettacolo che la natura regala solo di rado.
Stanchezza
Ripartendo in traghetto da Tau disponiamo finalmente di un posto abbastanza largo in cui sederci per riposare decentemente, rispetto all’autobus in cui c’è a malapena lo spazio per stendere a metà le gambe. Badando a non sprecare nemmeno la più piccola delle energie residue, sistemiamo come possibile zaini e scarpe. Togliendole scopro un piede distrutto che nelle parti più massacrate mi duole solo al tocco. Davide cede al sonno e si addormenta ancora seduto, mentre io resisto ma sono così rallentato e privo di forze che potrei cascare a terra da un momento all'altro, scivolando giù dal sedile. La forza di volontà, così necessaria nella difficile ascesa e non meno nella discesa, è ora svanita completamente. Rimango in quello stato di simil - dormiveglia apatico fino alla fine dell’ora di traversata, recuperando appena quel briciolo di energie che mi serviranno per raggiungere il posto dove potremo finalmente recuperare tutte le forze perdute con una sana e lunghissima dormita, cosa di cui sento assolutamente il bisogno non avendo praticamente dormito la notte precedente.
 
Con il solito autobus arriviamo in zona campeggio, dove una ragazza sta pitturando la facciata di quello che pare un bungalow, con molta solerzia e pazienza. Ci rinfranchiamo pensando che deve per forza essere una dipendente del campeggio e quindi qualche punto informazioni aperto ci sarà di sicuro. Secondo le indicazioni che abbiamo, il nostro ostello sta proprio lì: fatti pochi passi in più scopriamo che si trova letteralmente a quattro falcate dalla sede del camping visitato questa mattina, anche se è più simile ad una lavanderia pubblica o ad una stalla, piuttosto che ad un ostello. Vaghiamo per dei corridoi assolutamente tutti uguali e privi di qualsiasi riferimento, con pareti di un arancione brillante fastidiosissimo per gli occhi, ma non troviamo la nostra stanza. Torniamo indietro a farci rispiegare l’ubicazione della camera: odiamo dover ritornare sui nostri passi lungo la strada che abbiamo appena percorso, ma non c’è scelta. La pazientissima receptionist dai capelli rossi e dai modi affabili ci rispiega tutto da capo senza irritarsi. Dopo la nuova spiegazione finalmente accogliamo con enorme gioia e sorpresa la nostra camera doppia, come si accoglie l'acqua nel deserto. Possiamo riposarci tutto il tempo che vogliamo senza badare alle vicende di nessun compagno di stanza. Il supermercato vicino viene letteralmente svuotato dal cibo non appena recuperiamo le forze per raggiungerlo: i nostri stomaci e soprattutto i muscoli reclamano cibo a volontà per riparare tutti i microtraumi prodotti dalla salita e soprattutto dalla discesa, per non parlare dei piedi profondamente segnati di rosso nelle zone corrispondenti agli attriti con la parte dura delle scarpe. Ripensando a cosa abbiamo appena passato, sul duro sentiero per il fiordo, ci sentiamo veramente dei pascià in riposo serale, e finalmente dopo quaranta ore ininterrotte di veglia posso dormire come si deve, in conclusione di una giornata passata a sognare ad occhi aperti.
 
La strada atlantica  
Non c’è come dormire in un letto vero per cancellare completamente la stanchezza accumulata da giorni. L’autobus che ci porterà a Bergen, la nostra prossima destinazione, parte alle nove e tre quarti, lasciandoci abbastanza tempo per verificare le nostre condizioni fisiche e fare una colazione decente. Le mie caviglie sono ancora molto doloranti: un movimento sbagliato o un colpo anche leggero nei punti offesi è sufficiente a farmi vedere le stelle, potrei inventare una nuova costellazione se qualcuno mi desse un calcio lì. Fortunatamente le scarpe di tela flessibile mi risparmiano il dolore e presto sto camminando nuovamente bene, alla volta della stazione dei bus di Stavanger. Dopo una breve attesa su una delle tante pensiline in serie poste sotto un alto tetto di cemento, il bus parcheggia dinanzi a noi ed il controllore ci ricorda di sua spontanea volontà che se siamo studenti possiamo beneficiare di un consistente sconto sul caro biglietto. Questa si chiama onestà.
 
Dobbiamo passare cinque ore in viaggio, con diversi cambi in cui il bus viene caricato su dei traghetti: approfittiamo di questa traversata per riposarci ancora un po’ dopo la massacrante giornata alla Roccia, e non di meno per gustarci un altro giro panoramico indimenticabile. Siamo ora sulla spettacolare strada atlantica: ad ovest abbiamo direttamente l’immenso Oceano. Vi sono innumerevoli ponti stile Brooklyn, costoni rocciosi ovunque a delimitare le strade che serpeggiano a due passi dall'acqua, altrettanto ubiquitari cespugli di fiori viola intenso che sono una delizia per lo sguardo, mandrie di mucche e pecore che pascolano tranquille sapendo che nessuno le disturberà mai. Il tutto con la musica nelle orecchie che stuzzica la mente e rende quel susseguirsi di paesaggi veramente coinvolgente. Un fraseggio di chitarra impetuoso corrisponde ad una violenta discesa lanciati in velocità, un arpeggio più delicato a una curva stretta con l'oceano che lambisce la strada, basta lasciarsi trasportare. Anche dal traghetto il panorama è meritevole: il sole, che anche in questo caso ci regala tutta la potenza dei suoi raggi senza essere ostacolato dalle nuvole, ci abbronza il volto e rinvigorisce lo spirito, mentre passiamo da un'isoletta all'altra, in una strada complicata e tortuosa, sempre sospesa tra la terra e l'acqua.
 
Bergen
Nel primo pomeriggio raggiungiamo la città: dico subito che definirla splendida è riduttivo. Lasciata la stazione centrale, molto vicina alla fermata dell'autobus alla quale siamo scesi, passiamo di fronte ad un laghetto con le onnipresenti fontane situate proprio in mezzo all'acqua, a non poca distanza dalla costa. Spruzzano i loro getti altissimi incessantemente, muovendo l’acqua tranquilla con nubi di goccioline e onde che non le permettono mai di riposarsi. Delle sculture di triangoli impossibili, interamente in legno, decorano il viale che costeggia il lago. Tale viale ci porta al cuore della città, che versa direttamente sul porto: lì, sulla baia di Vagen, si trova il famoso quartiere di case tipiche denominato Bryggen. Principale attrazione di Bergen, è classificato dall'organo dell’Unesco come patrimonio dell'umanità: si tratta di un intero villaggio di ben 280 casette di legno, che nella parte frontale al porto sono tutte uguali. Le finestrelle a volta sono sviluppate in verticale più che in orizzontale, i colori sono vari. Queste casette sono attaccate l'una all'altra come delle villette a schiera, con i tetti la cui fine coincide con l’inizio di quelli successivi. Mi chiedo cosa succede quando nei mesi invernali ci nevica sopra: si accumula tutta la neve nelle conche formate? I canali di drenaggio dove sono? Non riusciamo a capirlo, ma di sicuro gli abitanti sanno il fatto loro e sono attrezzati per tutto.
Queste casette sono ormai in buona parte riadattate a negozi di souvenir, ristoranti e musei, sempre in grande attività data l’ingente mole di turisti che visita ogni anno Bergen, la prima città realmente norvegese che vediamo. Si nota dovunque il classico stile di costruzione nordico, a differenza di Oslo dove non ce n’è poi molto. Ci sono i soliti mercatini del pesce e non solo che ogni città degna di questo nome qui deve possedere, più tanti pittoreschi e strettissimi viottoli che sfociano al molo letteralmente invaso dalle barche di ogni genere. In massima parte sono pescherecci all'opera per mantenere il primato nazionale di decimo posto al mondo per merluzzo pescato, nonostante la popolazione complessiva non raggiunga i quattro milioni e mezzo di abitanti.
 
La città è fantastica, ma siamo molto stanchi e prima di tutto dobbiamo trovare un ostello per tranquillizzarci sulla nostra sistemazione e poterci organizzare al meglio. Uno dopo l’altro li troviamo tutti pieni, ma fortunatamente le ben informate ragazze dell'ufficio turistico ci parlano di un dormitorio non lontano da dove siamo ora e che non figura in nessuna guida o carta ostelli di cui disponiamo. È la nostra salvezza: una volta raggiunto, con gli zaini pesanti ancora addosso che cominciamo ad odiare profondamente, apprendiamo dalla sorridente ragazza bruna della reception che hanno giusto due posti da riservarci per la prossima notte, ma solo per quella. Ci sistemiamo subito in camera, si tratta di un dormitorio da otto posti, molto spartano e minimale. I letti a castello dalla sottilissima struttura sono verniciati di nero, hanno l'aspetto veramente povero. La prima persona con cui veniamo in contatto è un inquietante ragazzone di colore rastafariano, con le classiche treccine e lo sguardo veramente truce. Sta dormicchiando sul letto a castello proprio di fronte alla porta, la quale si apre sempre con un secco rumore che talvolta sveglia chi stia dormendo dentro, a meno che non abbia il sonno pesante. Dopo un primo e secco “What’s up?”, a cui rispondiamo senza ricevere a nostra volta una replica, ci chiede con una voce da oltretomba la nostra nazionalità, senza nemmeno girare la testa, e dopo la nostra timida confessione di essere italiani emette un laconico verso di intendimento e smette di parlare non curandosi più di noi. Si limiterà successivamente a squadrarci con sguardi obliqui, da noi il più possibile evitati. Il resto dei compagni d'ostello invece ci ignora totalmente fin da subito, ma senza che la cosa ci disturbi minimamente: meglio il silenzio piuttosto che la parlantina inarrestabile di qualche logorroico inguaribile. Le porte si aprono con delle mai del tutto sicure chiavi magnetiche che tendono a guastarsi e smagnetizzarsi con estrema facilità, e l'armadio dove dovremmo chiudere a chiave i nostri bagagli è difettoso, completamente scardinato nella parte inferiore. Lo chiudiamo solo dopo non pochi sforzi e imprecazioni, producendo molto rumore che potrebbe turbare i sonni del nostro inquietante vicino di letto con chissà quali conseguenze. Dopo aver riposato qualche minuto, partiamo con l’esplorazione della città.
Il centro è un fermento di attività, con le bancarelle che vendono ogni bene possibile e immaginabile, commestibile e non, macchine d’epoca parcheggiate in riva al mare, negozi italiani che offrono gelati alla panna cotta e al lampone a cui non sappiamo resistere, tavolini all'aperto degli innumerevoli bar che servono birra a quasi otto euro al boccale. Un prezzo decisamente proibitivo al quale non cediamo nonostante la tentazione di farci una sana birretta di fronte al porto al tramonto sia forte. Dalla piazza si nota anche la funivia panoramica che percorre la montagna sopra di noi. I viottoli della cittadina sono una goduria da esplorare: ce ne sono alcuni così stretti da sembrare di essere in un antico paesino di montagna, le case sono tutte di colori diversissimi tra di loro anche se il bianco predomina; alcune di esse hanno perfino l'asta per la bandiera incorporata nell'architettura, che sporge da sotto le finestre del secondo piano. Camminando per il primo di questi viottoli notiamo un inflessibile vigilessa che sta multando un'automobile parcheggiata appena fuori dal limite delle strisce, di fronte ad una chiesa costantemente chiusa ai visitatori. Viene da sorridere pensando a certi parcheggi selvaggi in terza fila che si vedono a casa nostra, totalmente impuniti. Una casa mostra evidenti segni di incendio, è tutta annerita nella parte centrale, che spicca immediatamente sulle travi bianche. Nonostante qui piova più di duecento giorni l’anno, gli edifici bruciano lo stesso.
 
Non ci sono costruzioni particolarmente alte nel quartiere residenziale, predomina l'architettura tipica: bassa, squadrata e spigolosa. Le panchine abbondano, ideale rifugio per ammirare la vita di questa cittadina, specie le centinaia di persone che entrano ed escono dai negozi di souvenir cercando qualcosa da portare a casa come ricordo indelebile della loro vacanza. Sono attratto dai ciondoli raffiguranti le rune vichinghe, simbolo di una grandiosa cultura che ancora si nota ovunque passeggiando per la città, ma costano decisamente troppo per potermele permettere. Così rinunciamo al proposito e torniamo verso l’ostello, intercettando un esercitazione di canto nella chiesetta vicino alla piazza principale, con il coro che intona serie di note via via sempre più articolate, ma che non inizia mai a cantare sul serio: lo spettacolo inizierà solo dopo diverse ore, da cui accantoniamo il proposito di assistervi ce ne andiamo a dormire.
 
I musei
Le mete del giorno, dopo esserci alzati di buon ora come sempre, sono il castello di re Hakon, l’edificio laico più grande dell’intera Norvegia, e successivamente il museo della pesca, vicino al quartiere industriale. La mattina piove e ci siamo alzati troppo presto per l'orario di apertura dei musei, fissato tra le dieci e le undici di mattina. Camminiamo lentamente verso la nostra prima meta, il dolore che ho ai piedi per la salita alla Roccia non è ancora svanito del tutto e basta un movimento falso per riportare a galla delle fitte dolorose non trascurabili. La pasta all'ossido di zinco si rivela utilissima per curare velocemente ed efficacemente tutte le abrasioni e piccole vescicole che si sono formate ad entrambi, permettendoci di camminare normalmente o quasi. Il nostro castello apre troppo tardi, per cui continuiamo a camminare verso il museo della pesca. La pioggia si fa più forte e forma una pozzanghera enorme ad un lato della strada, proprio quello del nostro marciapiede. Mentre stiamo camminando passa un autobus e centra in pieno la pozzanghera qualche decina di metri più avanti a noi: vediamo coi nostri occhi cosa rischiamo nell’eventualità di trovarsi di fianco alla pozzanghera quando passa un automobile. La pozza è lunga, un bel respiro e la superiamo di corsa in un momento di calma del traffico, arrivando oltre ancora asciutti. Cessato il rischio doccia, arriviamo nel quartiere industriale, dove sono ormeggiate alcune enormi navi da trasporto container in attesa di partire per chissà quale destinazione in giro per il mondo; probabilmente sono cariche di merluzzi da esportare che produrranno enormi guadagni. Il museo della pesca apre ancora più tardi del castello, da cui ritorniamo indietro, stavolta senza bisogno di corse per superare le pozzanghere traditrici. L'interno è realmente angosciante: prima di tutto visitiamo i sotterranei, le vecchie prigioni. Finestre minuscole e claustrofobiche, così come le stanze, grandi quel tanto che basta per vivere (?) ma non di più. Ci chiediamo stupefatti come fosse possibile che degli esseri umani venissero rinchiusi in quelle celle di isolamento così terribili, trattati come bestie indegne, e non troviamo risposta per quanto ci sforziamo. Le scale sono estremamente strette, da salire molto lentamente per evitare di incastrarsi, così come i soffitti e in particolare le porte che sono bassissimi e ci si può tranquillamente pestare la testa se non si presta attenzione. In compenso, la sala cerimoniale è enorme, con il suo pavimento in legno un po’ scricchiolante e polveroso e il tavolo ricoperto da un decoratissimo arazzo giallo. Una puntatina veloce alla cima della torre per avere una visuale più generale della città, logicamente splendida anche da lassù, per poi ridiscendere lungo quelle scale claustrofobiche fino a terra.
 
Ci viene offerto un caffè gratuitamente al vicino bar, grazie al nostro biglietto d'entrata. Approfittiamo volentieri di questo insperato e corroborante spuntino, quindi riprendiamo la strada per il museo della pesca che ormai è aperto. Abbiamo davanti agli occhi una carrellata di tutti gli arnesi da pesca usati dai norvegesi, riproduzioni fedeli dei pescherecci, gli enormi arpioni (veri!) usati per la caccia alle balene, lunghi diversi metri e terribilmente potenti. Quegli arnesi squarterebbero un essere umano in mille brandelli di carne sanguinante, con un colpo solo e senza alcuna fatica: non vorrei certo essere al posto delle sventurate balene. L'atmosfera mi ricorda molto Capitani Coraggiosi, un libro sempreverde letto anni e anni fa ma che mai come ora sento vicino, con tutti quei grossi merluzzi seccati, appiattiti e salati dal caratteristico odore penetrante e pungente, gli enormi ippoglossi piatti come sogliole riprodotti a grandezza naturale. Di tutti quegli attrezzi da pesca dalla strana forma non immaginiamo nemmeno la funzione, e anche le reti da pesca sono una rivelazione: scopriamo da alcune riproduzioni in scala che vengono messe sott'acqua a grande profondità, enormemente di più di quello che pensassimo, per catturare tutto il pesce possibile in una singola pescata. Come doveva essere difficile fare il pescatore qualche secolo fa, senza le moderne navi accessoriate con ogni comfort e dotate di tutti gli attrezzi da pesca intensiva ed automatizzata!
 
Dobbiamo ora trasferirci di ostello: lasciamo un dormitorio da otto persone per approdare in uno da dodici. Le porte si aprono anche stavolta a tessera magnetica e farebbero bestemmiare un santo da quanto funzionano male. Gli inservienti stanno disinfettando le stanze, passando lo straccio dappertutto insistentemente dopo averlo imbevuto e strizzato nel secchio della candeggina. Non c’è nessuno nelle camere e non ci sono nemmeno le lenzuola pulite posate sui materassi, sembra che siamo gli unici occupanti. Capiamo che dobbiamo levarci dalle scatole per non intralciare le operazioni di pulizia: dopo aver buttato gli zaini a terra, completamente incustoditi, ce ne andiamo a visitare un altro villaggio, rappresentante l’antica Bergen, ora tramutata in esposizione gratuita. Un po’ fuori dalla città, ancora una volta dobbiamo prendere l’autobus. Superando ciò che assomiglia vagamente ad un arco di trionfo romano, entriamo in questo piccolo agglomerato di casette a punta, che si sviluppa in pendenza. Ormai iniziamo a conoscere l'architettura delle case norvegesi, per cui non c’è più molto di nuovo da vedere, a parte alcuni sentieri davvero piacevoli da percorrere con le siepi che li costeggiano da ogni lato, inaugurati da staccionate bianche disposte a ventaglio. Il tutto è accompagnato da stormi di piccioni, gabbiani ed anatre che coesistono pacificamente a fianco del laghetto, camminando gli uni in mezzo agli altri senza mai battibeccare per accaparrarsi le briciole di pane lasciate dai visitatori. Troviamo un posto riparato per consumare il nostro fugace pranzo, proprio mentre comincia a piovere. Non rimaniamo a lungo nel villaggio: al ritorno optiamo per qualcosa da vedere al chiuso, evitando così la fastidiosa pioggerella che sta diventando sempre più fitta ed insistente.

L’acquario
La scelta cade sull'acquario, stavolta raggiungibile a piedi dal centro. Riprendiamo l'autobus dalla fermata in mezzo alla superstrada e torniamo nei dintorni del porto, dove assistiamo ad una scenetta davvero comica: un tale si è lanciato in acqua avvolto da capo a piedi in una rete da pesca imbottita all'inverosimile di pop corn, e ora sta lentamente nuotando a dorso verso la riva, gettando a manciate i pop corn che vengono prontamente raccolti dagli uccelli nella zona. Chiede anche a tutti i curiosi ammassati a riva, tra cui noi due, se ne volessimo qualcuno, con un'espressione gioviale e compiaciuta dalla sua eccentrica prestazione. Dopo averlo osservato per un po’ mentre cerca di togliersi la rete di dosso, passiamo oltre, senza badare troppo allo strano personaggio.
 
Nell'acquario troviamo ogni genere di animale pensabile, tranne i grossi mammiferi come le balene: nelle vasche all'aperto ci sono i pinguini, esserini alti tre barattoli che paiono avere perennemente freddo da come tengono le pinne raccolte attorno al corpo, i maschi impegnati nella cova delle uova, tutti che camminano lentamente con la loro goffa andatura caratteristica. Da dietro i vetri mi diverto per qualche secondo a far impazzire uno sventurato esemplare sventolandogli velocemente la macchina fotografica di fronte al becco e osservando la sua reazione mentre tenta di seguirne il movimento, poi proseguiamo nella vasca delle grasse foche, un po’ pigre ma molto simpatiche. All'interno invece, in un clima tropicale artificiale ed asfissiante, con palme e liane che calano da ogni dove, stanno i coccodrilli, i varani e tutti gli animali della zona amazzonica: i coccodrilli sono decisamente pigri, è difficile convincerli a fare qualcosa, tantomeno a farsi fotografare. Alcune piccolissime scimmiette dagli occhi curiosi e attenti sono chiuse in gabbia assieme ad un'iguana abilissima nel mimetizzarsi sui rami, mi fanno un po’ pena lì dentro così, chiuse in un metro cubo di spazio in un habitat artificiale che non potrà mai sostituire quello in cui sono nate per vivere, ma almeno lì sanno che non verranno mai mangiate da nessuno, magra consolazione. Nella zona delle vaschette c’è un’altra serie impressionante di pesci diversi, inclusi ragni e stelle marine, ognuno con relativo commento scritto e proiettato su un video. Alcuni hanno forme davvero curiose che attirano l’attenzione, altri si nascondono timorosi di essere visti.
 
Vita cittadina 
Facendo tappa ad ogni panchina pubblica per far riposare le gambe, decisamente massacrate da tutto quel tempo passato in piedi con pochissime soste, torniamo in ostello. Lì conosciamo un po’ di gente nuova: due giapponesi inquietanti, uno dei quali si siede per terra proprio di fianco al mio letto a tagliarsi le unghie dei piedi spargendone i pezzi in giro, sotto il nostro sguardo un po’ divertito e un po’ infastidito. Poi un po’ di nordici biondissimi, e infine due ragazze bolognesi della nostra età, anche loro munite di biglietto interrail, ma che si limiteranno a sedici giorni dedicati interamente alla Norvegia. Parlando un po’ scopriamo che hanno intenzione di esplorarla da cima a fondo, incluse le tappe di Tromsø e Capo Nord che noi invece avremmo saltato per motivi di mancanza di tempo, oltre che per i consigli di altri nostri amici che ci sono stati e ne hanno parlato come zone tranquillamente trascurabili. Scambiamo un po’ di chiacchiere con loro sugli ostelli visitati, sui nostri programmi di viaggio e sulla città di Stoccolma, ultima meta del nostro interrail e che loro ci assicurano essere splendida. In particolare consigliano di non perdersi il famoso ostello nave!
Chiacchieriamo ancora un po’, dopodichè le salutiamo per andare a mangiare fuori, questa volta intenzionati fermamente a provare qualche piatto tipico, ci saremmo vergognati davvero troppo a non comprare mai nulla che avesse il sapore del posto. Passando per la solita viuzza che conduce al centro, giunge dal cielo l'ispirazione: un chioschetto poco lontano dal porto sta vendendo degli hot dog di ogni genere, tra cui anche quelli di carne di renna! Li agguantiamo immediatamente, sono squisiti, in barba al vegetarianesimo che non è decisamente la nostra passione.
Con lo stomaco pieno riprendiamo a girare in maniera molto disimpegnata per i negozi della zona, specie all'alimentari dove contiamo di rifornirci: una volta provveduto ai generi di prima necessità, la nostra attenzione si rivolge ai frigoriferi che stoccano la birra. Ce n'è di ogni tipo, da quella che si trova in ogni angolo di supermercato anche a casa nostra, fino a quelle tipicamente nordiche riconoscibili dalle effigi vichinghe che recano sull'alluminio. Il prezzo sembra buono: circa tre euro per una lattina da mezzo litro, ci fanno molta gola. Mentre stiamo valutando se sia il caso di prenderle o no, allungando la mano per aprire il frigorifero così da guardare meglio, Davide si accorge tutt'a un tratto che la maniglia è legata strettamente con un fazzoletto di cotone bianco, per cui è impossibile da aprire. Da cui passiamo al secondo, pensando che il primo sia guasto o chiuso temporaneamente per motivi logistici: ma in un attimo, guardando meglio, le nostre certezze crollano. Tutti i quattro frigoriferi sono infatti chiusi col lucchetto, inaccessibili! Ci siamo cascati proprio come due pere cotte. In Norvegia infatti il commercio dell’alcol è soggetto a severe limitazioni, essendo il suo abuso un problema di rilevante gravità sociale: si possono comprare alcolici solo dopo raggiunta la maggiore età ed esibendo un documento di identità, l’età da raggiungere è direttamente proporzionale alla gradazione. Ci sono pochi negozi, di monopolio di Stato, appositamente dedicati alla vendita di alcolici, ma anch'essi sono soggetti a limitazioni, e il limite di legge di alcolemia alla guida è tale che con nemmeno mezzo bicchiere di vino si è già quasi certamente fuorilegge. Essere beccati ubriachi al volante qui significa come minimo ventuno giorni di carcere senza condizionale, oltre ad una salatissima multa! La legge norvegese è molto severa e non concede scappatoie, a noi potrà sembrare esagerato, ma sono sicuro che così facendo di incidenti mortali per guida in stato di ebbrezza qui ce ne sono molto pochi. Oltretutto, gli alcolici comprati in bottiglia hanno una sovrattassa che verrà restituita solo riportando il vuoto al negozio.
 
Non abbiamo voglia di grane e di trafficare con documenti d’identità per berci una misera lattina di birra, da cui torniamo in centro in cerca di altre amenità. L’insistente vento inizia a spirare con parecchia forza, da cui per non soffrire troppo il freddo ci mettiamo addosso i kee-way, unica protezione supplementare di cui disponiamo. Quel che rimane della serata lo passiamo su una panchina ad osservare il bellissimo tramonto che tinge di rosso e giallino le numerosissime nuvole all'orizzonte, creando un quadretto del porto e delle casette di legno che pare fiabesco. Le persone lasciano le barche su cui hanno sicuramente preso ben poco sole oggi, le strade invece di svuotarsi si riempiono sempre di più di gente che adora la vita notturna, particolarmente attiva qui al Nord.
Noi però sappiamo di doverci alzare presto il giorno dopo, quindi non tiriamo troppo la corda e ritorniamo al nostro ovile. Lì ci irritiamo non poco perchè le nostre tessere magnetiche non funzionano più, o meglio funzionano una volta sì e dieci no. Dobbiamo litigare con la prima porta per riuscire ad aprirla, e possiamo entrare solo grazie ad altri occupanti che ci salvano con la loro tessera fortunatamente funzionante. Una volta dentro i problemi non sono però finiti: la porta della camera si blocca automaticamente qualche minuto dopo che è stata chiusa, costringendoci a rimanere sempre almeno in uno in stanza per poter aprire all'altro che è rimasto fuori. Per rendere più vivace la serata, uno dei giapponesi si addormenta con il portatile ancora acceso, e dalle cuffie che ha sulle orecchie si sente costantemente e chiaramente una fastidiosissima musica da film sempre uguale, tremolante e ossessiva fino allo spasmo, che durerà fino alla mattina quando ci risveglieremo. Commento rumorosamente questo fracassone, sicuro di non essere capito, tra le risate del mio compare che dorme sopra di me nei letti a castello, finchè non cedo al sonno e si dorme, finalmente. Giapponese fracassone permettendo.
 
Sulla Flamsbana
La terza giornata presso Bergen è interamente dedicata alla natura ed ai fantastici paesaggi della zona dei fiordi limitrofa, la più famosa della Norvegia. Indubbiamente le città sono bellissime da visitare, ma la natura è sempre tre passi avanti all'uomo nel creare opere d'arte, ed è il motivo principale per cui sono venuto qui al Nord: entrare in comunione con la natura il più possibile.
In uno dei tre binari che si insinuano dentro la struttura a tripla volta della piccola stazione, parte tra poco il treno diretto a Myrdal, la prima tappa dalla quale parte quello che è descritto come il più bel tratto panoramico dell’intera nazione, culminante nella successiva gita lungo il fiordo in traghetto. Si preannuncia una scorpacciata di natura e paesaggi veramente succulenta. Il treno arriva in orario, come è la regola per i treni nordici. Velocemente arriviamo alla piccola cittadina di Myrdal, da cui prenderemo la coincidenza per la storica linea denominata Flamsbana. Al momento di comprare i biglietti abbiamo scelto di percorrerla in discesa per vedere un panorama più ampio e goderci una pendenza vertiginosa. Il treno è già lì pronto ad aspettarci. Siamo tutti trepidanti in attesa di vedere questo famoso tratto, che si compie in poco meno di un'ora superando con soli 20 km di tratto ferroviario un dislivello di circa 880 metri. Si tratta della linea ferroviaria senza l’uso della cremagliera più ripida d’Europa, e un indiscusso capolavoro di ingegneria, con tutte le sue curve incastonate perfettamente nel coriaceo granito.
 
Il treno parte lentamente, ancora una volta dopo quasi settant’anni di onorato ed ininterrotto servizio. Comincia la discesa tenendo i freni sempre tirati, data la notevole ripidezza dei binari. Le cascate sono numerosissime: dalle alte montagne che ci sovrastano da ogni lato scendono in numerosi punti dei rivoli d’acqua a strapiombo, disposti quasi regolarmente sulle creste rocciose. Dividono in più parti le montagne come una riga tirata a pennarello, sembra un lavoro fatto da un geometra. La prospettiva in cui ci troviamo li fa sembrare ancora più alti e minacciosi, con quell'acqua che scende velocissima e che pare possa tagliare in due qualsiasi ostacolo le si presenti lungo il percorso, come l’acqua ad alta pressione usata in ingegneria, che riesce a spezzare in due perfino le lastre di marmo. I freni di questo vecchio treno rivestito internamente di legno stridono in modo acutissimo, lancinante, a volte quasi assordandoci. Si sente la locomotiva incespicare e contrastare a fatica l’imperiosa forza di gravità che tende a tirare giù tutti i vagoni verso il basso come un fulmine inarrestabile. In alcuni punti vi sono delle gallerie scavate nella montagna: si aprono delle finestre naturali in mezzo ad esse, tenute saldamente aperte da delle travi di legno incrociate a mo’ di grata. Passandoci in mezzo sembra di essere imprigionati dentro la roccia, ma è fortunatamente solo un’impressione: il treno, seppur lentamente e frenando a fatica, prosegue la sua discesa. Raggiungiamo dopo qualche minuto uno spiazzo panoramico in cui il treno si ferma del tutto e lascia scendere i passeggeri sulla legnosa piattaforma, per permettergli di ammirare la solenne cascata di Kjosfossen. Sgorga furibonda dalla cresta della montagna pochissime decine di metri più avanti, e passa proprio sotto il nostro ponticello. Questa è una vera cascata, molto più larga dei rivoli visti prima, un vero e proprio fiume in piena che scende impetuoso, cambiando più volte direzione quando incontra gli scogli indifferenti. È già uno spettacolo emozionante di per sè, ma lo diventa ancora di più quando, da degli altoparlanti nascosti dietro le rocce in posizione strategica a noi invisibile, sale una musica molto evocativa e celestiale, sulla quale ballano due ragazze biondissime che indossano vesti vichinghe. Le vediamo spostarsi leggiadramente da un masso all'altro appena davanti alla cascata, danzando leggere come l'aria sottile di montagna. Sono avvolte dalle nubi di spruzzi e dal fragoroso rumore dell'acqua che scivola sulle rocce frangendosi in migliaia di flutti, erodendole nel corso dei secoli con una forza enorme, spaventosa. Nessuno si aspettava un simile intrattenimento, e rimaniamo tutti a bocca aperta. Quando la musica finisce, le danzatrici spariscono nel nulla così come sono apparse, lasciandosi cadere a peso morto al di là del masso. Prima di poter dire qualcosa, il suono imperioso del fischietto del ferroviere rompe la magia e ci richiama a risalire sulle carrozze: il viaggio deve proseguire. Le gallerie nella roccia finiscono, ora siamo all'aperto e possiamo vedere molto meglio la vallata sotto di noi: ancora cascate, prontamente filmate da Davide con la sua inseparabile videocamera. Gli stretti fiumi d’acqua in caduta libera si raccolgono a valle scavando una conca che va poi a formare degli eleganti laghetti, oltre a provvedere a generare energia grazie alle centrali idroelettriche sottostanti, abilmente nascoste per non deturpare la panoramica della zona. Le fattorie e le casupole che si intravedono ogni tanto appese sui monti fanno veramente domandare come facciano a vivere delle persone in un luogo così isolato, e parliamo dell'estate, figurarsi in inverno. Questo in particolare è un aspetto che mi ha sempre suscitato estrema curiosità: queste persone vivono tutto l'anno in luoghi impervi, eppure sopravvivono lo stesso, magari vivendo anche meglio di noi, troppo spesso presi dalla frenetica vita urbana e costantemente sotto stress. Arrivati in fondo al meraviglioso percorso c'è la cittadina di Flam, un minuscolo borgo portuale e commerciale che conta circa cinquecento abitanti, e che è il punto di partenza per il nostro battello che solcherà tutti i quaranta chilometri del Sognefjord, il maggiore fiordo della Norvegia.
 
Sul Sognefjord
Il traghetto arriverà tra qualche ora, per cui ci facciamo un giro spassionato per le piane che danno sul mare, circondate sugli altri tre lati da montagne dal vago aspetto dolomitico. Non mancano le zone dove potersi sedere per ammirare il panorama, ma preferiamo camminare un po’ per sgranchirci le gambe dopo l'immobilità nel treno. Le montagne del versante opposto a quello del porto sono molto vicine a noi, si gettano quasi a perpendicolo in acqua come se fossero vette di tremila metri a cui sono stati tagliati di netto i primi duemila, cadute poi verso il basso tutte di un pezzo con la parte rimanente fino a impiantarsi sul livello del mare. In realtà la parte inferiore è sommersa dall’acqua oceanica che si è insinuata fino a questo punto dell’entroterra, ma riesce difficile immaginarlo, così come è difficile rimanere indifferenti di fronte ad una singolarità simile. Mentre aspettiamo, seduti in riva al golfo in una consueta pausa meditativa, due bambine norvegesi bionde come il sole e munite solo di costume leggero si tuffano in acqua, che deve essere gelida, senza provare il minimo brivido o collasso. Rimaniamo allibiti: se lo dovessimo fare noi probabilmente andremmo a fondo privi di sensi. Anche le persone che incrociamo sono spesso coperte solo da magliette a maniche corte, al massimo da giacchette leggere, mentre noi abbiamo freddo pur con addosso strati e strati di indumenti pesanti. Guardiamo questi individui quasi insensibili al freddo con crescente irritazione mano a mano che se ne presentano altri ai nostri occhi: com’è possibile che loro non soffrano minimamente vestiti così poco, mentre noi non possiamo tirare giù la cerniera della giacca senza congelare dopo pochi minuti? Forza dell'abitudine a vivere in paesi freddi e a passare qui lunghi mesi invernali dove il sole sorge con una luce flebile solo per pochi minuti, o addirittura non sorge affatto. Il cielo, fino a poco prima discretamente nuvoloso, inizia a scurirsi e a coprirsi di nuvole nerastre: non passerà molto tempo prima che si rimetta a piovere. Riusciamo a mangiare tranquilli su una panchina le nostre poco invitanti cibarie, e non appena finito iniziano a cadere i primi goccioloni. Manca solo una mezzoretta prima che arrivi il nostro traghetto a prelevarci. La traversata dura circa quattro ore, un vero peccato che il tempo sia così brutto: i fiordi visti dalla barca sono meno emozionanti di quello che abbiamo potuto ammirare giorni prima dal Preikestolen, un po’ oscurati dal tempo uggioso, ma la traversata si rivela comunque piacevole, anche se nell'ultima parte un po’ monotona: dopo qualche ora l'occhio si abitua al paesaggio e non reagisce più se non nei punti in cui veramente è impossibile non stupirsi. Inganniamo il tempo ascoltando musica, giocando a carte, facendoci domande sui nostri rispettivi argomenti di studio che sono infermieristica e ingegneria meccanica: un buon modo per divertirsi ad interrogarsi e imparare anche qualcosa di nuovo. Poco prima del ritorno a Bergen, il comandante supera se stesso con un annuncio decisamente divertente, in perfetto inglese: "Vi ringraziamo per essere stati a bordo con noi, tra poco saremo arrivati e potrete scendere, ma se le ragazze vogliono trattenersi di più, sono ben accette!". Tra le risate generali, la piccola nave si ferma lentamente all’ormai conosciuto porto di Bergen, e appena smontati puntiamo subito all’ostello. Non abbiamo voglia di far altro che dormire.
 
Bergen
Intorno alle sei e mezza vengo bruscamente svegliato dall'allarme dell'ostello, non riesco a concepire che un buco del genere disponga anche di un allarme. La fastidiosissima campanella trilla proprio fuori dalla nostra porta, ossessivamente: probabilmente è scattata per un contatto elettrico o qualche movimento di un grosso insetto che ha perso la via di casa. Nessuno si alza per controllare cosa sia successo, e non appena uno dei norvegesi vicino alla porta inizia ad uscire dalle lenzuola, la campanella improvvisamente tace. In un attimo ripiombiamo tutti nel sonno, eccetto Davide che non si è nemmeno svegliato, unico di tutta la camerata a non aver levato la testa. Quando non molto dopo ci svegliamo tutti e due, stavolta grazie alla ben più discreta e mite sveglia nel telefonino, lasciamo finalmente anche questo dormitorio mentre stanno ancora quasi tutti ronfando beatamente. Abbiamo così voglia di andarcene che non facciamo nemmeno colazione. In particolare lasciamo con grande piacere i giapponesi pazzi, le tessere magnetiche malfunzionanti e gli allarmi che partono ad ogni volo di mosca. Buttiamo in qualche modo le lenzuola sporche in fondo al sacco di recupero e andiamo via senza fare rumore, il più velocemente possibile.
 
In questa fredda mattinata finiamo di visitare la città, iniziando con la chiesa di San Giovanni, rossa e fiera che si staglia in fondo ad un viale in pendenza, dove sono parcheggiate delle macchine talmente inclinate da stupirsi che non rotolino giù per la forza di gravità. Altissima, di forma appuntita, con le guglie verdi e l'onnipresente arco a sesto acuto tipicamente gotico, il mio stile di costruzione preferito. Purtroppoè il suo giorno settimanale di chiusura, da cui non possiamo entrare nemmeno in questa. Dopo questa piccola interruzione nei nostri numerosi aiuti dalla dea bendata, un altro giretto nella zona più elevata della città, per fermarci poi di fronte ad uno stagno pieno di anatre e ninfee, divertendoci ad osservarle mentre galleggiano beate in acqua senza alcuna preoccupazione. Loro non devono pensare a dove avrebbero dormito il giorno dopo, né ai posti da prenotare in ostello, né alle coincidenze perse, tutte cose con cui noi abbiamo a che fare quasi quotidianamente da una settimana, abbastanza stressanti perchè non finiscono mai, ma allo stesso momento eccitanti e coinvolgenti, trasudanti spirito d'avventura e di rischio che ogni ventenne che si rispetti dovrebbe avere. Ormai ci manca poco a lasciare questa affascinante città, da cui ritorniamo alla stazione ad attendere ancora per qualche ora il treno che ci riporterà ad Oslo, per poi prendere la coincidenza per Trondheim, la nostra prossima tappa.
 
Ci sediamo sulle non troppo comode panchine di legno della stazione, in paziente attesa. Ognuno è immerso nei propri pensieri, guardando i pochi treni che la stazione può contenere mentre arrivano e ripartono, dopo che le inservienti li hanno lustrati da cima a fondo per non lasciare i passeggeri seguenti sguazzare nella (poca) sporcizia lasciata dai precedenti. Osserviamo la gente che si muove senza sosta da una piattaforma all'altra, tutti che posano una parte della loro vita sulle fredde pietre del pavimento della stazione, erodendo impercettibilmente quel suolo così vissuto. Anche noi ora siamo parte di tutto questo, orgogliosi di poter dare il nostro contributo a questo eterno viavai. Lo spirito di chi ama viaggiare si nutre di questi momenti: anche l'apparente noia delle ore passate ad aspettare il treno in silenzio ha il suo fascino. Lascia tutto il tempo per pensare, per riflettere, per fantasticare su quella che sarà la prossima meta, su come sarà il prossimo treno su cui salirai, su quante cose ti rimangono ancora da vedere e su come il tempo piano piano stia passando e stia divorando una tappa dietro l'altra, lasciandoti a bocca aperta per quanto passa velocemente. Sembra così lunga una vacanza quando si è all'inizio, magari anche scoraggiante per le risorse mentali e fisiche che ti richiederà, poi un giorno ti svegli ed è già finita, e questo è un mistero che temo non potremo comprendere mai pienamente. Ma la vacanza ora è tutto meno che finita, è ancora tutta da vivere, e questo è meraviglioso. Non posso fare a meno di ringraziare non so chi per avermi dato la possibilità di essere qui ora, con il corpo e la mente sani, cosa che troppo spesso diamo per scontata ma sulla quale purtroppo non abbiamo mai certezza.
 
Mentre ci immergiamo nei meandri della nostra mente, che nessun altro oltre a noi stessi potrà mai indagare e conoscere, ci pensa un'ape a risvegliarci e a riportarci nel mondo reale: infatti ha appena punto l'orecchio di Davide, senza che lui abbia fatto il benchè minimo movimento che potesse anche lontanamente innervosirla. Sappiamo che è un ape poichè il pungiglione, ancora infisso nella carne molle del padiglione auricolare, si è trascinato dietro anche le interiora del temerario insetto. Ha punto sapendo di morire poco dopo, scardinandosi l'addome a differenza della ben più cattiva vespa che punge più e più volte senza timore di uccidersi. La zona offesa diventa subito gonfia e dolorante, ci vorrebbe del ghiaccio, ma non abbiamo granchè sottomano. L’unica idea che mi viene è di usare la confezione metallica degli sgombri al pomodoro, l'unica cosa fresca che abbiamo a disposizione, da mettere sull'orecchio per alleviare dolore e gonfiore. Non è esattamente un metodo ortodosso, ma funziona!
Facciamo quattro passi per calmare le acque agitate dalla spiacevole puntura e per rinfrescare la parte dolorante con un po’ di vento, passando per delle vie ancora non battute in cui però non troviamo nulla di interessante. Poco prima che il treno si presenti al capolinea recuperiamo i bagagli dagli indistruttibili cassetti metallici e ci troviamo a lottare ancora una volta con la massiccia presenza di vespe assassine che sembra proprio ce l'abbiano con noi e solamente con noi. Riusciamo a scacciarle solo dopo numerose sventolate di berretti e di mani, finchè finalmente il treno arriva e ci porta via dalla stazione, liberandoci dal tormento di questi fastidiosi insetti, mai così aggressivi come in questi ultimi giorni.
 
Notte in treno
Ci aspettano sedici ore complessive da passare in carrozza, spezzate solo dal breve cambio che dovremo fare poco prima della mezzanotte. Dobbiamo ripercorrere lo stesso tratto di ieri fino a Myrdal, per poi ridiscendere verso la fermata di Hønefoss a poca distanza dalla capitale, nella quale cambieremo treno e risaliremo con il diretto per Trondheim. Purtroppo non esistono collegamenti ferroviari diretti tra Bergen e Trondheim, che ci farebbero guadagnare quasi una giornata, mentre gli altri mezzi di trasporto come il traghetto hanno un costo proibitivo per le nostre finanze, oltre ad essere notevolmente più lenti. Lungo la strada vediamo ancora tante impetuose cascate, un violento temporale che si conclude poco dopo con uno stupendo arcobaleno che taglia in due le montagne rocciose ed irregolari, altro regalo di una natura veramente generosa nei nostri confronti. Forse è segretamente sensibile al nostro ardente desiderio di vedere le meraviglie che riesce a creare gratuitamente, ed è disposta a regalarci un po’ della sua ricchezza. La vista dell’arcobaleno fa dimenticare per un attimo tutti i timori, il dolore per la puntura e la noia del lungo viaggio.
Siamo un po’ preoccupati per la coincidenza che dovremo prendere ad Oslo, dato che il treno ha più di mezz’ora di ritardo, probabilmente dovuta ad un guasto: ma ancora una volta non dobbiamo preoccuparci. Sfrecciando velocemente e senza fermarsi, questa scatola di latta semovente recupera totalmente i minuti perduti, e l'apprensione svanisce presto quando abbiamo in mano i biglietti per Trondheim mentre la coincidenza arriverà a minuti. Controllando meglio i biglietti che abbiamo in mano però ci accorgiamo che segnano un orario diverso! Tra le scuse del commesso ci vengono cambiati, e per fortuna che ce ne siamo accorti in tempo. Il treno è ormai prossimo alla stazione, da cui ci portiamo velocemente sul binario. Dalla fretta di salire sbagliamo la carrozza, entrando in quella dei vagoni cuccetta: ci troviamo a dover scavalcare precipitosamente tutti i numerosi passeggeri muniti di borsoni grandi quanto i nostri che stanno salendo dietro di noi, per poter raggiungere la carrozza giusta, non essendoci in quel vagone alcun collegamento diretto con le carrozze normali. Liberi dalla folla dopo non pochi sforzi e contorsioni negli stretti passaggi dei vagoni, riprendiamo la via per il nostro vagone che è proprio in fondo al treno, trovando ancora i gentili regali per aiutarci a dormire meglio. Mi sono preparato al peggio dopo la precedente esperienza di notte dormita (?) in treno, infatti stavolta non voglio nemmeno tentare di addormentarmi, vada come vada: se dormo va bene, altrimenti preferisco rimanere sveglio, tollererei di più una notte completamente in bianco piuttosto di una dormita pochissimo e malissimo. Effettivamente, non va molto meglio: dormo complessivamente solo un'ora (ma è già un deciso miglioramento, se confrontata col nulla), dalle sei alle sette di mattina. Ma stare sveglio mi offre ancora una volta una cospicua ricompensa: intorno alle cinque e mezza, mentre il mio compagno è tranquillamente appisolato, assisto ad una spettacolare alba, con le sue luci e i suoi colori che mi lasciano ancora una volta a bocca aperta mentre il treno prosegue spedito tra i monti, indifferente a quella meraviglia.
 
Trondheim
Poco prima dell'arrivo alla stazione di Trondheim ci svegliamo tutti e due, uno dal sonno vero e proprio e l’altro dal dormiveglia, ancora rimbecilliti e con ben poca voglia di passare un'altra giornata a girare per una città, ma dobbiamo farcela lo stesso. A Trondheim dedichiamo solo una giornata, prima di ripartire alla volta di Bodø. Arriviamo verso le sette e mezza, con la luce del sole ormai piuttosto forte, stanchi morti e con la mente un po’ rallentata nonostante abbiamo dormito un po’ di più della volta precedente. Il clima è molto più rigido ora, è assolutamente necessario mettersi su anche il secondo maglione e la giacca. Il cambiamento di temperatura così repentino ci stupisce, ma siamo pur sempre un bel pezzo più a nord di prima, ed è mattina presto. Non abbiamo molta fretta di gettarci nell’esplorazione della città, da cui tento di dormire ancora un po’ non appena individuo una (rara) panchina completamente sgombra nella stazione. Il mio tentativo però non va a buon fine: la panca è troppo rigida e i miei cicli circadiani sono troppo scombussolati per riuscire a prendere sonno, e anche se ci riuscissi probabilmente dormirei solo pochi minuti svegliandomi ancora più imbesuito. Così desisto e mi accorgo della mia vescica decisamente tesa, che mi sta mandando chiari segnali per dirmi che ha una gran voglia di svuotarsi: la sorpresa è che i bagni della stazione sono a pagamento, o si pagano cinque corone o la si tiene. Fortunatamente riesco ad approfittare delle circostanze e ad entrare gratis quando l'uomo delle pulizie apre la porta dall'interno, proprio mentre sto ispezionando la serratura della porta cercando un modo di eludere il sistema di blocco automatico. Vede la mia espressione un po’ spaesata, con i capelli ancora completamente arruffati e gli occhi iniettati di sangue, e subito mi dice con fare rassicurante e quasi paterno che quello è il bagno, sì proprio quello, posso entrare...di sicuro non posso rifiutare l’offerta! Sono d'accordo sul fatto che pagando più tasse i nordici si assicurano migliori servizi, in fede alla loro filosofia “dalla culla alla tomba”, ma sborsare denaro perfino per andare a fare pipì mi sembra veramente eccessivo, è quasi crudele. Eppure, la maggior parte delle toilette delle stazioni e dei centri commerciali nordici è a pagamento. In alcuni si paga direttamente all'entrata, in altri solo se si deve usare la tazza, mentre gli orinatoi sono gratis: è tragicomico vedere tutte le file di bagni con la porta chiusa da un robustissimo lucchetto, magari quando non hai le monete giuste in tasca e stai per fartela addosso. Chiusa la parentesi bagni pubblici, facciamo una veloce colazione con quello che c'era rimasto di succhi di frutta, stavolta decenti,  e contornando con biscotti previdentemente scelti tra quelli meno zuccherati, quel tanto che basta per darci la forza di uscire dalla stazione e cominciare a camminare senza subire attacchi intestinali, il resto verrà da sé appena preso il ritmo giusto.
 
La prima tappa è la stupenda cattedrale di Trondheim, di nome Nidarosdomen: è la più grande della nazione e considerata spesso come la più bella di tutta la Norvegia. Effettivamente, è splendida: di stile romanico-gotico, enorme e maestosa all'esterno con quelle decine di statue in fila che ti osservano dall'alto e le svettanti guglie. All’interno è ancor più magnificente, con il suo rosone di vetro sapientemente colorato che è una delizia per gli occhi, tutto in spazi enormi che avranno richiesto un lavoro titanico coronato da decenni di sudore e devota tenacia per essere completato. All’interno c’è quello che sembra un set per girare un film, apprendiamo presto che si sta preparando una grande recita tradizionale in nome di una ricorrenza storica della città che cade proprio quel giorno. Due attori vestiti in abiti tradizionali stanno incrociando le loro spade di legno con disinvoltura, provando e riprovando finchè le loro mosse non saranno perfette. Dopo averli osservati per un po’, usciamo dalla grande cattedrale per una giusta pausa di riposo atta a rifocillarci, assediati come non mai dalla fame e soprattutto dalle vespe che non ne vogliono sapere di lasciarci in pace ovunque andiamo, indifferenti ai nostri colpi di mano armata di berretto. Un breve spuntino, dopodichè un giretto in centro, anche qui come a Bergen pieno di vita: c’è una fiera medioevale completa di bancarelle (strano!), suonatori ambulanti di viola, perfino un giovane fabbro che sta dando una dimostrazione di come si forgia una spada. La batte infinite volte col martello per rimuovere più impurità possibili, per poi metterla a raffreddare in acqua producendo la classica fumata bianca che si sprigiona dalla punta arroventata e luminosa. Quando la punta tocca con troppa violenza una superficie esplode in centinaia di piccole scintille che vanno a spegnersi spontaneamente nell’aria senza più lasciare traccia. Piena tradizione norvegese che si assimila attraverso i sensi, col clangore ossessionante del martello sul coriaceo metallo che stanca il martello e la staffa dell’orecchio, l'odore del pesce fresco che stuzzica insistentemente i recettori olfattivi presto saturati, la vista di tutte quelle cose nuove che stiamo imparando su questo straordinario e fiero popolo. Dopo la mostra visitiamo la fortezza della città, che dalla sua posizione sopraelevata domina tutto il paesaggio sottostante. Uno stretto sentiero in mezzo a dei verdi boschetti ci porta in uno spiazzo erboso molto ampio, che circonda il vecchio castello: entro le spesse mura troviamo ancora cannoni ornamentali ma che una volta sparavano davvero, ammassi di roccia, strapiombi senza protezioni e qualche panchina su cui sedersi ad ammirare l’intera città dall’alto, con l’oceano e le onnipresenti montagne sullo sfondo. Tornando indietro, in fondo ad una discesa notiamo un congegno a dir poco insolito: è una specie di binario metallico che percorre tutto il dislivello, sembra un montascale. Scopriamo subito dal cartello indicativo di cosa si tratta: è un montacarichi per le biciclette! Si incastrano nei supporti e il macchinario le porta fino in cima alla salita, per non doversela fare in sella a morire di fatica, o spingendo la bicicletta a piedi. Geniale! Lassù pensano proprio a tutto. Successivamente tocca al quartiere pescatori, molto simile al Bryggen, con due file di case bianche, rosse, azzurre, gialle e verdi che si estendono a perdita d’occhio. Ce n’è anche qualcuna più rustica senza vernice, tutte si ergono su palafitte immerse nell'acqua che separa i due filari, visibili in tutta la loro bellezza dal rosso ponte che unisce i due lati.
 
Apatia
La stanchezza della pesante nottata comincia a farsi sentire prepotentemente, stiamo iniziando a trascinarci piuttosto che a camminare, e ciò sfocia in un brutto momento di noia ed apatia, quando le forze vengono meno e si vorrebbe solamente essere a casa propria a dormire, senza dover prendere altri treni o dover camminare ancora per chissà quanti chilometri in giro per le città affollate. Forse anche il pensiero dell'ennesima notte in treno che ci aspetta proprio quella sera per raggiungere Bodø rende così pesante la fatica, amplificandola. Tutta questione di psicologia, probabilmente: l'ultimo giorno di lavoro della settimana si sopporta meglio del primo, sapendo che gli seguirà il fine settimana. Per riprendersi è sufficiente scavare un po’ più a fondo dentro di sè per ritrovare la motivazione e le risorse necessarie ad andare avanti: poco alla volta, dopo una sosta in stazione per riprendere fiato e colore, in cui cerco nuovamente di dormire su quelle rigidissime panche di metallo ma senza successo, ci riprendiamo in parte da quella condizione di passività che rischiava di prenderci totalmente. Aspettiamo il treno per Bodø, tappa che mio padre fece nel lontano 1971 per vedere il surreale eppur reale spettacolo del sole di mezzanotte, quando fece tutto il giro della Norvegia come noi, ridiscendendo poi dalla Svezia fino a completare il percorso in Danimarca. Non potremo vedere il sole vero e proprio, con nostro grande rammarico: la stagione è già troppo inoltrata. Non ci muoviamo più dalla panca della stazione, preferiamo risparmiare il più possibile le energie residue per la giornata di domani, che sarà altrettanto impegnativa. Il tempo lo passiamo come possiamo, un po’ nella noia e un po’ tentando qualche argomento di conversazione per tenerci svegli: osserviamo il modellino di plastica rappresentante la linea tranviaria locale, un tempo funzionante ed attivato da un bottone, ora solamente ornamentale. Il mio compare si diverte a interrogarmi sulle tecniche di lavorazione che ha subito il portalampada della stazione prima di essere installato sopra la nostra panchina: sarà stato tornito, fresato o chissà cos’altro? E la maschiatura dei bulloni cos’è?
Mentre rispondo alle domande, un po’ arrampicandomi sugli specchi un po’ ragionando, passa un anziano signore dall’aspetto decisamente trasandato e decrepito, vestito da custode della stazione ma non certamente in grado di svolgere questo lavoro: infatti è incassato in una motoretta per handicappati che lo avvolge tutto. Tale mezzo si muove molto lentamente sulle quattro piccole ruote, continua ad andare avanti ed indietro senza sosta, non si capisce proprio dove voglia andare. Alla fine il tizio decide di andarsene, uscendo dalle porte ad apertura automatica, e tardando troppo a uscire dal raggio d’azione: SBAM! Le porte si sono chiuse contro la macchinetta, fortunatamente non fracassandola. Poi sparisce nel nulla, sempre lentamente. La curiosità verso quest’uomo così strano scema progressivamente, fino a svanire.
 
Ormai si sta facendo sera e di lì a breve arriverà il nostro treno: mi attende un'altra notte in bianco? Questa volta no: nonostante stavolta non ci diano nè coperte nè mascherine nè tappi per le orecchie, dormiamo quasi normalmente. Io addirittura raggiungo le tre o forse quattro ore di sonno, poche in assoluto ma tantissime in proporzione, in ogni caso sufficienti ad un degno recupero di energie. Questo nonostante la presenza di due cani e due neonati nel vagone, i primi che contrariamente alle aspettative non si fanno sentire nemmeno con un verso per tutta la notte, i secondi che urlano spesso e volentieri, con i genitori che invece di farli smettere li incoraggiano, o almeno così ci sembra. In ogni caso non si danno molta pena a farli tacere, da perfetti maleducati.
Queste quattro orette dormite, probabilmente favorite dal sedile molto più reclinabile all'indietro dei precedenti, mi salvano la vita e rigenerano un po’ lo spirito, non credo che avrei sopportato un'altra notte quasi totalmente in bianco. La mattina successiva dovremo essere svegli e ricettivi al massimo, per prendere al volo il traghetto per le conosciute isole Lofoten. Bodø sarà solo una stazione di passaggio, non essendo un luogo di attrazione turistica se non fosse che è una delle posizioni migliori per vedere il sole di mezzanotte, sul quale ha costruito la propria fortuna. La luce notturna che si intravede di notte intorno alle tre e mezza, in un momento di veglia temporanea, mi regala altri momenti indimenticabili di meraviglia e ammirazione.
 
Bodø
Le foreste sterminate nei pressi di Bodø sono lo scenario che ci appare davanti agli occhi la mattina prestissimo, quando ci destiamo con largo anticipo per essere pronti a scattare verso il porto non appena messo piede a terra. Il treno supera silenziosamente il limite del Circolo Polare Artico, senza che ciò venga annunciato da alcun altoparlante, rispettoso del sonno dei viaggiatori: siamo ora nella magica terra del sole di mezzanotte e della notte polare. Superare questo confine invisibile riempie di soggezione: essere oltre il Circolo è un po’ come essere in un altro mondo. Qui si trovano gli ultimi avamposti umani prima delle gelide terre polari, e raggiungerli è un’altra emozione fantastica.
Ancora non siamo arrivati a Bodø, però. Non conosciamo nulla di questa città nè dell'ubicazione della sua stazione navale. Andiamo perciò praticamente alla cieca, sperando di prendere il traghetto della mattina, o ci sarebbe toccato quello del primo pomeriggio, che ci avrebbe fatto perdere un sacco di tempo inutilmente, bloccati in una cittadina dove non c'è veramente niente da vedere nè da fare. Oltretutto siamo in ritardo di quasi un’ora rispetto agli orari previsti, stavolta non recuperata: quell’ora fa sì che arriviamo proprio in coincidenza con l’orario teorico di partenza del traghetto. Mentre il treno si sta lentamente arrestando al capolinea assoluto delle ferrovie norvegesi, noi siamo già pronti con gli zaini in spalla, allacciati sotto la vita per scaricare meglio il peso sui forti muscoli lombari. L'adrenalina è già in corpo a dosi massicce, sapendo che abbiamo solo pochi minuti per arrivare in tempo, non sentiamo nemmeno il freddo pungente della mattina artica. Appena scesi non perdiamo un secondo: la corsa è disperata. Chieste il più velocemente possibile alcune informazioni alla ragazza che vende i biglietti in stazione, intravedo in lontananza dell'acqua, e deduco che da quella parte ci dev'essere il porto appena indicatoci. Una volta arrivati in zona però non vediamo in giro anima viva, c'è un singolo traghetto attraccato in lontananza che sembra in procinto di partire, ma non ha scritto niente sulle sue fiancate o da altre parti, da cui non possiamo sapere dove sarà diretto. Per giunta non c'è nemmeno l'accenno di una biglietteria, la situazione si sta facendo critica. Rischiando di farci investire dalle automobili che passano lungo il curvone, attraversiamo la strada e troviamo casualmente due ragazzi in motocicletta fermi davanti alla barca, unici esseri umani nel raggio di un chilometro quadrato, che stanno aspettando di salire con il loro mezzo. Gli chiediamo dove possiamo fare i biglietti, loro rispondono indicandoci vagamente una zona di costruzioni distante circa un centinaio di metri, al che corriamo ancora più veloci per fare questi fantomatici biglietti. La cintura dei pantaloni non tiene e quasi mi cadono a terra mentre aumento sempre di più la velocità, compatibilmente con il mio fiato. Arriviamo trafelati in questo complesso di baracche bianche con il tetto grigio, adibite a bar e servizi igienici, ma di biglietterie nemmeno un’ombra sbiadita. Ormai disperati, torniamo altrettanto velocemente alla nave, sperando che ci sia permesso fare i biglietti direttamente a bordo, ammesso che tale nave sia effettivamente diretta a Moskenes, il paesino a sud dell’arcipelago Lofoten. La moto dei due ragazzi si è appena accesa e sta entrando nel vano veicoli: il controllore sta per chiudere il passaggio. Riusciamo ad entrare per un pelo e a fare i due biglietti direttamente davanti al controllore, dopo aver ricevuto la conferma che la destinazione è la nostra. Mentre stiamo ancora cercando le monetine di calibro più piccolo per pagare esattamente la cifra dovuta, la piattaforma di metallo si rialza velocemente e chiude l'entrata a qualsiasi altra persona o veicolo che volesse salire.
 
Isole Lofoten in vista
Ancora totalmente increduli per essere veramente riusciti a prendere il traghetto, troviamo i primi posti a sedere disponibili e ci lasciamo cadere quasi a peso morto sulla morbida tela violacea che li ricopre, con gli zaini ancora allacciati in ogni punto. Col fiatone che non è ancora passato, ci guardiamo con aria stralunata ma indescrivibilmente felice, non so come avremmo potuto reagire vedendo il traghetto partire senza di noi proprio sotto gli occhi, condannandoci a cinque ore di inutile attesa. Il computer di bordo sopra le nostre teste ci informa che la traversata durerà un paio d'ore: è scritto tutto, la velocità della nave, quella del vento e la direzione in cui spira, la posizione sulla carta geografica che stiamo occupando, la forma dell'itinerario percorso. Anche qui v’è la striscia colorata che si allunga mano a mano che la nave prosegue nella sua traversata. Inizialmente non mi accorgo nemmeno che siamo in movimento, sono troppo concentrato sul colpo di fortuna assurdo che ci è appena capitato. Quando Davide esce per fare delle riprese con la videocamera, io non ho nemmeno la forza di alzarmi, sono ancora scosso e preferisco rimanere seduto a lasciare scaricare l'adrenalina spontaneamente, con le gambe che mi tremano ancora leggermente. Un po’ di succo di frutta, l'ultimo rimasto, toglie l'aridità della gola, la barretta di cioccolato mi ridà forza, fino a che mi avventuro fuori anch’io: solo ora dopo parecchi minuti mi accorgo che Bodø si sta allontanando e le creste rocciose delle Lofoten si avvicinano. Il forte vento mi fa presto rientrare, per ora ho solo voglia di starmene dentro tranquillo e rilassato in un ambiente caldo, finchè non mi sarò completamente ristorato. Quando però le isole sono vicine, non posso esimermi dal tornar fuori a vederle: sono veramente uno spettacolo unico. Già da lontano si nota che le montagne hanno qualcosa di strano, insolito per un'isola come siamo abituati a vederle: sembrano dei grossi denti che spuntano direttamente dall'acqua, in gran parte irregolarmente frastagliati ed aguzzi, quasi tutti piegati in un unica direzione. Come se ci sia un dente del giudizio che li costringe a spostarsi lateralmente accalcandoli gli uni contro gli altri, o come se ci sia una forza gravitazionale invisibile sopra l'isola che attira irresistibilmente le cime delle montagne tutte da una parte. Ci avvicinamo sempre di più al punto di attracco per la nostra nave, osservando molto intensamente queste strane rocce e il paesino che sta appena sotto di loro: è il tempo di visitare il paese delle meraviglie.
 
Moskenes
Questo villaggio nella punta meridionale delle isole è il nostro punto di arrivo, e non appena messo piede a terra lo sbalordimento non fa che aumentare: la tipologia di montagna è identica alle Dolomiti dall'altezza di circa duemila metri in su, esclusivamente erbose e totalmente spoglie di vegetazione arborea o anche arbustiva, direttamente stagliate sull'oceano senza terreni a fare da divisorio, tutte così curiosamente inclinate. Quello che sembra un telo rosso è in bella vista vicino alla cima di una di queste montagne, cerchiamo di capire cosa sia: una tenda? Un segnale di pericolo? Non ci viene in mente nulla di convincente per spiegarlo. Ci concentriamo meglio su ciò che abbiamo immediatamente davanti agli occhi: Moskenes è un borgo turistico piccolissimo ed insignificante, con un ufficio informazioni però efficiente: per queste isolette dimenticate dal mondo, la pesca ma soprattutto il turismo significano tutto, per il sostentamento. Lì scopriamo che presto passerà un pullman che ci porterà ad Å, il paese monolettera che è un po’ il punto di riferimento delle Lofoten meridionali. Ancora con gli occhi non abituati a questo ben poco comune panorama insulare, ci sediamo pazientemente ad aspettare questo fantomatico bus, ma non si vede nulla arrivare. Siamo in pochissimi, la zona è di un silenzio quasi totale, rotto solo dai rari commenti dei pochi turisti. Diverse automobili sono ferme aspettando di entrare nel prossimo traghetto che le riporterà sulla terraferma, ma nulla si muove. Arriva da lontano un anonimo furgoncino che supera la piccola chiesetta bianca del paese, passa oltre a noi senza fermarsi e parcheggia dietro il centro informazioni, sparendo dalla nostra vista. Non ci facciamo molto caso, finchè Davide avanza un'ipotesi audace: non sarà quello il nostro pullman? Presi dalla curiosità andiamo a controllare, e l’intuizione si rivela azzeccata: grande poco più di un furgoncino dei gelati ambulante, conta solo quattordici posti a sedere. Questo è il mezzo che ci porterà fino ad Å, in soli dieci minuti di strada.
 
Verso Å
Saliamo divertiti su questo trabiccolo un po’ malandato ma onesto, per goderci dieci minuti di strada assolutamente indimenticabili: lo spettacolo che offrono queste isolette è impareggiabile, si conquista immediatamente il primato di posto più bello al mondo che ho visitato finora, e ce ne vorrà prima che qualche altro lo superi. Semplicemente meravigliose. Ovunque ci giriamo ci sono baie, casette rosse su palafitte o incastrate in mezzo alle rocce costiere su cui cresce solo della fragile erbetta o qualche raro arbusto abbarbicato su se stesso e piantato saldamente nella poca terra presente, barchette da pesca ormeggiate sotto le case, cespugli di fiori circondati da innumerevoli laghetti, golfi che penetrano fin nei villaggi grazie a strettissime aperture nelle coste rocciose, montagne di nuda roccia appuntite e arzigogolate che ci sovrastano incastonandosi perfettamente con la geometria dei villaggi e strapiombando sull'oceano immenso, un paesaggio che sembra uscito dalla penna del più fantasioso scrittore di favole mai esistito a questo mondo. I quadri nel museo di Oslo non erano semplice fantasia. Penso subito che quando sarò pensionato vorrò trasferirmi qui a vivere gli anni che mi restano. Ancora oggi ci sto pensando.
 
Il villaggio di Å è altrettanto meraviglioso: conta circa un centinaio di abitanti, è quanto di più appartato e rustico si possa pensare. Nonostante abbiano tutti l'accesso a Internet grazie alla galoppante diffusione della tecnologia, questo vecchio e fiero borgo di casette rosse con i tetti grigi, abitato da pescatori e innumerevoli gabbiani, resiste al passare del tempo senza abbandonare le sue tradizioni nè un briciolo della sua storia, piccola ma significativa. Ogni singolo angolo di strada è veramente pittoresco: c'è un unico negozio di alimentari di legno bianco che utilizza ancora il vecchio metodo delle etichette arancioni incollate con scritto sopra il prezzo delle merci, il registratore di cassa è manuale come si usava tempo fa. Un solo ristorante che dà diretto sul mare in una posizione strategica, baracche di legno che fungono da officine attrezzi ormai trasformate in musei, dei tralicci di legno sparsi per tutta l'isola, usati da secoli per appendere gli stoccafissi a seccare durante i mesi primaverili e per far asciugare le reti da pesca al sole. Ancora piacevolmente frastornati dall'impatto con questo mondo così lontano dalla nostra realtà quotidiana, troviamo immediatamente l'ostello: il paese è così piccolo che è impossibile avere problemi di orientamento. All'ufficio turistico, anche qui presente e funzionante, non ci danno la pianta della città come chiunque si aspetterebbe, bensì direttamente una fotografia scattata da poche decine di metri di altezza, che basta a comprendere in un colpo solo tutto quello che c'è da vedere.
 
Sistemate le formalità burocratiche, troviamo la nostra camera, in un edificio poco distante: non abbiamo nemmeno bisogno di chiedere informazioni all’autista, ci ha lasciati proprio lì davanti. Alloggeremo in un carinissimo rettangolino di legno con quattro letti singoli, dalle finestrelle quadrate, molto piccolo e spartano ma così accogliente e pittoresco da far venire voglia di viverci, con la stufetta elettrica vecchissimo stile che sta fuori dalla porta della camera pronta ad essere usata in caso di necessità. Sorprendentemente non c’è quasi polvere sui pavimenti nè sulle suppellettili, un ottimo regalo per noi che siamo allergici. La camera è ancora completamente libera, gradiremmo proprio essere da soli, a goderci quello splendido posticino, ma dovremo aspettare la sera per scoprire se qualcuno avesse prenotato anche gli altri due letti. Ci concediamo un'ottima birra comprata all'alimentari di fianco, questa volta senza lucchetti nè limitazioni di alcun genere, gustandocela in ogni sorso come simbolo di nuovamente ritrovata libertà.
 
Un centinaio di chilometri sopra il Circolo Polare Artico, ora siamo proprio in un altro mondo.
Le botteghe
Non possiamo assolutamente non esplorare ogni angolo del paese, e cominciamo subito dopo bevuto l’ultimo sorso di birra: una mezzoretta prima che chiudano riusciamo a visitare tutti i musei del posto, se così si possono chiamare viste le loro dimensioni. Ognuno in passato era adibito a una funzione diversa: la casa del pescatore è talmente piccola che si fa fatica a muoversi, le scale sono conformate nel modo usuale ma sono talmente ripide da risultare quasi verticali come una scala a pioli, da cui sono pericolose da salire e scendere senza aggrapparsi da qualche parte. I soffitti sono bassissimi per una persona di normale statura, figuriamoci per i nordici che sono notoriamente più alti di noi. Tutto rispecchia pienamente la dura vita dei pescatori, abituati alle poche comodità e al molto lavoro. Su ogni comodino si trovano soprammobili di porcellana, fotografie ricordo e vecchissimi vasi di ceramica; nella cucina sono allineate tutta una serie di bottiglie di vino tipico, un po’ impolverate, da annusare solamente. In ognuna di quelle si sente un odore caratteristico, totalmente diverso dai vini a cui siamo abituati. La tentazione di rimanere ad abitare per un po’ in quei piccoli gioiellini dismessi e provare com'era la vita dei pescatori è veramente forte, ma dobbiamo accontentarci della camera del nostro ostello, in cui potremo tralaltro soggiornare solo una notte per problemi organizzativi: il giorno dopo ci sposteranno in un altro edificio. Poi c'è la rimessa delle imbarcazioni e degli attrezzi per pescare, tutti abbondantemente arrugginiti ma che meritano rispetto per tutto il pesce che hanno estrapolato dal mare durante la loro vita lavorativa, pesce che ha dato da mangiare e continua tutt'oggi a nutrire migliaia di persone. Sempre lì si trovano delle impressionanti ed autentiche ossa di animali acquatici, in particolare una vertebra di balena, identica per forma a quelle umane e grossa come un televisore di medie dimensioni: da rimanere di stucco! Sapevo che la balena può raggiungere e talvolta superare i trenta metri di lunghezza, un record di dimensioni per un essere vivente a questo mondo, ma vedere di persona una sua parte, grossa almeno cinquanta volte la corrispondente umana, è impressionante!
Successivamente vengono la fabbrica di olio di fegato di merluzzo, la più antica dell'intera Europa: le capsule che ingoiamo oggi per ridurre i nostri livelli troppo alti di colesterolo arrivano da posti come questi. A pensarci è strano, fa capire come tutto il mondo sia collegato insieme da una rete invisibile di cui purtroppo spesso non ci rendiamo nemmeno conto, credendo di bastare a noi stessi e di non aver bisogno di niente altro, di nessun altra cultura diversa dalla nostra, mentre ogni singola parte del mondo è importante per dare il suo contributo al massiccio e poliedrico ingranaggio della vita. Poco distante c'è la vecchia fucina del fabbro, con le sue morse arrugginite ma ancora funzionanti, i suoi utensili di ogni forma e dimensione, dove si fabbricavano gli strani coltelli per sventrare i pesci e le lampade ad olio indispensabili per illuminare con la loro luce fioca le abitazioni nei duri mesi invernali. Infine il panificio, cosa per noi banale essendo abituati ad averlo sotto casa, ma che alle isole Lofoten era un importantissimo punto di riferimento per l'intero paese, una pietra d’angolo. Il suo enorme forno annerito tace, ma chissà quanta farina ed acqua saranno finiti in quella piccola grotta rovente, e chissà come era buono il pane fatto qui. Questa era la vita che si faceva ad Å: semplice, tranquilla, di pochissime pretese e altrettante poche aspettative, atta solo a guadagnarsi da vivere onestamente e con dignità senza dare fastidio a nessuno, e soprattutto senza distruggere l'ambiente. Una vita che può apparire invidiabile o detestabile, ma indiscutibilmente autentica. Se penso che anche questi gioiellini di isolette fuori dal mondo sono state coinvolte loro malgrado nella seconda guerra mondiale, in cui l'unico obiettivo era distruggere il più possibile per accaparrarsi una supremazia territoriale ed economica, mi chiedo veramente a che livello possa arrivare l'idiozia di alcuni esseri umani, sempre che si possano definire propriamente tali e non si meritino l’appellativo di subumani, ipotesi più volte avanzata nel tentativo di descriverli.
Tentiamo anche una veloce visita al museo dello stoccafisso, vero motore dell'economia locale, esportato nel Vicentino dalle intere isole Lofoten grazie ad un gemellaggio collettivo che garantisce continui scambi sia commerciali che culturali: in quel di Vicenza poi lo stoccafisso viene cucinato con la ricetta locale, alla Festa del Baccalà. Appena entrati troneggia sulla parete un cartello che recita orgogliosamente "Noi parliamo italiano!", ma proprio mentre stiamo entrando ed osserviamo un enorme merluzzo dal fortissimo ed inconfondibile olezzo appeso al soffitto sviscerato ed essiccato, veniamo informati che il museo sta chiudendo. Abbiamo comunque visto abbastanza da ritenerci soddisfatti, del resto come si può rimanere delusi in un luogo simile?
 
Oceano
Esaurita la parte culturale, è il momento di dedicarsi a quella naturalistica. La baia del paese è una porta aperta sull’immenso Oceano Atlantico, che si estende coprendo completamente un territorio così tremendamente esteso da far fatica a comprenderlo. Seduto sull’ultimo spruzzo di roccia prima del mare, osservo l’orizzonte in uno stato di pace mentale assoluta, che forse mai ho vissuto così intensamente: il mare piatto quasi come una tavola mi distende completamente lo spirito ed elimina qualsiasi brutto pensiero. Guardando il cielo sgombro mentre si fonde con l’oceano all’orizzonte, mi sento quasi trasportato in quella zona con la mente, mentre il corpo rimane fermo seduto sulla roccia. Il ritmico alternarsi delle debolissime onde amplifica questa sensazione, provo un’attrazione enorme per quella sconfinata distesa d’acqua. Non un rumore, né tantomeno quello delle nostre voci, che stanno perfettamente zitte lasciandoci ascoltare il silenzio della natura. Un silenzio assordante, da far venire i brividi. Questo è quello per cui sono venuto qui, e ora che l’ho raggiunto, non potrei desiderare di più. Quando mi riprendo dall’estasi, decidiamo di salire sulle collinette di sassi e muschio che sovrastano il borgo: da quella posizione potremo vedere tutto in modo ancora più completo. In men che non si dica siamo in cima, in totale qualche decina di metri più su, e da lì possiamo goderci una vista nuovamente emozionante. Davanti a noi il paesino che dà sull'immenso Oceano Atlantico, alla nostra sinistra le imponenti montagne che lasciano in ombra buona parte della zona, sulla destra è appena visibile un campeggio in riva al mare, dietro di noi un verdognolo lago circondato dai monti, sulle cui rive due persone stanno facendo campeggio selvaggio in tenda, non senza suscitarci una punta d'invidia. E davanti a noi, di nuovo, l’oceano. Il tempo è perfetto, il sole ancora abbastanza alto nel cielo, possiamo concederci un’altra buona mezz’ora di rilassamento totale e di meditazione. Quello che si pensa in questi momenti non si può comunicare nelle pagine scritte di un diario. Quello che si può comunicare è che quando capita di viverlo, si può solamente essere grati a Madre Natura.
 
Pavel
Torniamo in ostello già rimpiangendo gli stupendi momenti appena vissuti, e vediamo che non c'è ancora nessuno in camera nostra, sembra quasi che ce l'abbiamo fatta a rimanere soli. Ormai sono le dieci, non verrà più nessuno, pensiamo. Sogni svaniti: dovremo condividere la stanza con un israeliano ventiseienne di nome Pavel, che arriva poco dopo di noi e da subito si rivela estremamente loquace, perfino invadente. Non la smette nemmeno per un secondo di farci domande di ogni tipo, con fare quasi sospetto. Scopriamo poco dopo che è entrato in ostello clandestinamente, con il sacco a pelo che è severamente proibito onde evitare infestazioni di pidocchi, e addirittura senza pagare. Non sembra comunque ostile nei nostri confronti, nonostante il suo comportamento poco ortodosso. Facciamo finta di niente ed aspettiamo che esca, ma dopo poco il richiamo serale di Å si fa sentire anche per noi: troviamo il nostro compare fuori dall'ostello che ci invita ad una passeggiata (ma praticamente ci costringe ad andare con lui!), e inizia a raccontarci le sue imprese di free climber, indicandoci la montagna di fronte a noi e sostenendo di essere in grado di scalarla in venti minuti senza aiuti di alcuna sorta, se escludiamo il gesso sulle mani per fare maggiormente presa. Siamo abbastanza scettici su questa sua ultima affermazione, nonostante il suo fisico robusto e muscoloso parli chiaro, ma non lo diamo a vedere, facendo solo una battuta scherzosa “Al massimo, duecento minuti!”. Poi parte a confrontare le temperature locali con quelle israeliane, spiegandoci che a casa sua oggi sarebbe una giornata invernale. Finisce col parlare di tutti gli italiani che ha incontrato in tutti gli ostelli che ha visitato finora, dicendo di non aver mai visto un ostello senza rappresentanti del Bel Paese. Tutto sommato è anche simpatico, ma parla decisamente troppo e non ci lascia il tempo di replicare qualcosa senza partire con un altro argomento. Continuiamo a camminare verso il promontorio, sono quasi le undici di sera ma la luce è ancora praticamente diurna, riusciamo perfino a fare qualche fotografia al mare che incontra il cielo rosato, con qualche gabbiano superstite che lancia il suo grido in mezzo al mare. La maggior parte di loro si è ormai ritirata sotto i tetti delle rosse case, dove si raccolgono a decine non smettendo un solo secondo di garrire. Beati loro che si godono questa meraviglia tutto l'anno gratis. Un altro momento meditativo di grande intensità: i colori del tramonto rendono ancora più bella la scena vissuta nel pomeriggio, sto altrettanto zitto per assimilare il più possibile la magia di quel momento, ma complici la logorrea di Pavel e il sonno optiamo tutti e due per andare a letto. Tornati in camera scopriamo che anche il quarto posto è stato occupato, per giunta da un italiano, che dopo averci salutato sparisce e non ne sapremo più nulla. Il nostro Pavel ci chiede informazioni su una linea ferroviaria, ricambiando poi dandoci in regalo una carta che mostra tutti gli ostelli della Scandinavia, in gran parte da noi già conosciuti, ma che comprende anche alcune novità che successivamente ci salveranno da situazioni difficili. Quando il compare si stanca di farci domande indiscrete e noiose possiamo finalmente dormire, pregustando già la giornata successiva, che abbiamo già un'idea precisa di come passare.
 
In bicicletta
Svegliarsi in quella stanzetta di legno minuscola, con la luce del sole che filtra timidamente dalle finestre chiuse solo con tendine semitrasparenti, è presagio di una giornata grandiosa. Non approfittare delle rare giornate di pieno sole che queste piccole zolle di terra ci stanno offrendo così generosamente è quasi un delitto. Completiamo velocemente il trasferimento di camera, giusto in tempo per riuscire a sfuggire al logorroico Pavel che si sta svegliando proprio in quel momento: il nuovo alloggio è molto più grande, ha il lavandino incorporato e il bagno vicinissimo, ma i materassi sono praticamente inesistenti: degli strati di gommapiuma poco più spessi di stuoie da spiaggia, cosicchè la schiena poggia quasi direttamente sulle dure doghe, decisamente scomodo ma tutto sommato sopportabile. La camera è quadrupla ma per ora siamo solo noi, magari almeno stavolta saremo graziati e non avremo compagni di stanza. Ma a questo ci penseremo solo la sera. Per la nostra giornata di esplorazioni l'ostello propone un servizio di noleggio biciclette per ventiquattr'ore, più che sufficienti a farsi un giro panoramico eccezionale. La parte sud delle Lofoten è infatti indiscutibilmente la più attraente e la migliore da percorrere miglio dopo miglio in sella ad una bicicletta. Al prezzo di poco più di venti euro, non economico ma sicuramente sostenibile, ci aggiudichiamo i nostri mezzi: sono delle scassate e apparentemente poco affidabili biciclette da città, probabilmente con molte migliaia di chilometri alle spalle. Sembrano proprio vecchie e malandate, ma non possiamo pretendere troppo, questo è quello che abbiamo. E poi l'entusiasmo di girare per le isole in bici ci fa presto dimenticare dei dettagli. Io non vado in bicicletta da parecchi anni e non sono mai stato una cima, Davide è un po’ più abituato a pedalare ma anche lui a digiuno da qualche anno: stiamo tentando l'avventura in condizioni di sottoallenamento decisamente pesante. Riprendiamo ad andare in bici nell'ultimo posto al mondo che ci saremmo aspettati fino a poco tempo prima, la situazione ha un che di paradossale.
 
La selezione dei mezzi è accurata: scartate le bici che frenano poco, quelle con i cambi di velocità troppo arrugginiti o addirittura assenti, quelle apparentemente un po’ sbilanciate, non troviamo di meglio che due biciclette costruite assemblando parti di altre bici diverse tra loro, come testimonia il cambio di velocità la cui levetta segna ben sette rapporti, quando in realtà le ruote dentate di cui dispongono sono solo due o tre. Partiamo lentamente ancora ignari di ciò che ci aspetta, freschi di energie…ma per poco. Le strade delle Lofoten, seppur ottimamente asfaltate e prive di buche, sono estremamente tortuose, si tratta di saliscendi continui e abbastanza ripidi, non durano molto ma per gambe poco allenate sono distruttivi. Ripercorrendo la strada che ci porta a Moskenes, rivediamo ancora tutta la meravigliosa scena dell'andata, ma con la differenza che stavolta stiamo soffrendo non poco, io in particolare, per far andare quei rottami totalmente inadatti a un percorso simile su per quelle salite che paiono interminabili. Un attimo dopo si riprende velocità, giù per discese che finiscono quasi subito, lasciando ben poco riposo alle gambe. Il percorso è veramente massacrante, un po’ mi pento di aver spinto decisamente in direzione della gita in bicicletta, ma presto mi convinco che non si poteva non provarla, l’avremmo rimpianta troppo. Così stringo i denti e continuo a faticare su quella bicicletta con la mia penosa andatura, maledicendo ogni salita e benedicendo ogni discesa, consapevole che prima o poi arriverò ad una qualche destinazione. Mi distraggo cercando di non pensare che sono su una bicicletta, e in qualche modo continuo con la mia stentata pedalata.
 
La galleria
Nonostante la fatica e l’andatura a dir poco stentata, in men che non si dica percorriamo i quattro chilometri e mezzo che ci separano da Moskenes, il paese del nostro primo arrivo: ora è il momento di proseguire diritto verso altre mete, curiosissimi di vedere come siano queste isole in ogni loro parte. Presto incontriamo una galleria lunga esattamente un chilometro, come segnala il cartello posto all’entrata. A nessuno dei due è mai capitato di percorrerne una in bici, ma la imbocchiamo senza pensarci troppo a lungo. Le automobili che sfrecciano in galleria vengono preannunciate da un rombo fragoroso, come se stesse atterrando un aereo di linea proprio di fianco a noi, rombo che poi rivela quasi sempre una semplice utilitaria lanciata a non più di sessanta chilometri l'ora, fatta eccezione per un solitario camion che crea una folata di vento abbastanza forte ma non così forte da farci sbilanciare. Un po’ di paura di sbandare per gli spostamenti d'aria dei mezzi che ci passavano di fianco c'è, visto anche il bordo della strada molto irregolare e ciottolato, vicinissimo alla linea di margine della strada. Per fortuna non succede alcun incidente ed usciamo indenni: quando rivediamo la luce del sole che aumenta sempre di più all'avvicinarci dell'uscita abbiamo davanti un'altra scena mirabolante. Il mare è in un bagno di sole, è ben visibile davanti a noi uno degli innumerevoli ponti che collegano tra loro le decine di isolette, con il suo aggraziato dosso sull'acqua. Nemmeno una nuvola sparuta in cielo e catene montuose sullo sfondo a perdita d'occhio, mostri emersi direttamente dall'oceano. Trovare questo clima alle Lofoten, col mare calmissimo, è una vera rarità. Ci accorgiamo solo ora della presenza di una pista ciclabile sulla destra, costruita apposta per non dover attraversare direttamente la galleria con le biciclette. Ma tutto sommato ci siamo divertiti molto di più a passarci in mezzo! Con rinfrancato spirito, prendiamo stavolta la pista ciclabile e imbocchiamo il primo ponte sospeso, con la sua curva sinuosa che aspetta solo di essere solcata.
 
Reine
Le isole sono unite tra loro in modo così apparentemente precario da sembrare catene umane, tanto sono piccole: alcune sono niente più di scogli, su cui i ponti fanno presa da un lato per poi ripartire dall’altra parte delle rocce unendosi ad uno scoglio più grande, in uno spazio di poche decine di metri quadrati. In lontananza si vede chiaramente la cittadina di Reine, pochi chilometri più in là, sul più grande di questi “scogli” rocciosi con solo qualche rara collinetta erbosa. Le biciclette scendono veloci per l'inerzia della discesa permettendomi un breve riposo dopo la prolungata salita per arrivare allo svincolo, e presto siamo in quest'altro borghetto appena più grande di quello da cui proveniamo. Qui c’è un supermercato (si fa per dire), strade decisamente più larghe che ci permettono un buon margine di sicurezza per non farci investire dalle poche auto circolanti, e bancomat per il prelievo automatico delle tanto necessarie corone, che ci fa molto comodo per rifornirci in un momento di scarsa liquidità. Scopriamo però subito di essere rimasti quasi al verde: la macchina si rifiuta categoricamente di darmi anche la cifra minima prelevabile dalla mia carta. Pensiamo ad un guasto della carta prepagata, ma calcolando con più calma le spese e i prelievi finora effettuati, scopriamo che sono rimasto con poco più di dieci euro caricati, mentre Davide ne ha solo qualche decina in più! Alla faccia! Si fa presto a spendere fior di soldi qui in Scandinavia, nonostante le nostre spese siano ridotte quasi all’osso. Risolto il problema e dopo una breve sosta per riprendere fiato su una panchina isolata in mezzo a un ghiaioso cortile, ripartiamo alla volta di Hamnoy, la prossima tappa ancora un paio di chilometri più in là. Qui ci godiamo lo scenario più bello dell’intero arcipelago! I ponti si fanno innumerevoli, alcuni di cemento a più campate, altri dei semplici ammassi di roccia levigata sulla cima per permettere alle auto di passare, ma lasciata grezza e irregolare sulle pareti laterali. Non sono ovviamente disposti su una linea retta, ma a zig zag, e non potrebbe essere altrimenti data la natura tremendamente frastagliata ed irregolare di questi isolotti. Sui ponti spesso le automobili devono alternarsi da una parte e dall'altra per poter passare entrambe, da cui sono quasi sempre regolati da semaforo: nonostante lo scarsissimo traffico, ciò può significare lunghe attese per passare da un appezzamento di terra all’altro. Il dedalo di vie di comunicazione creato dai ponti è piacevolissimo da percorrere, la fatica si attenua notevolmente schiacciata dal fascino di questi sputi di terra e roccia in mezzo all’oceano. In mezzo all'acqua scorgiamo degli strani recinti circolari di ferro verniciato di scuro, come delle piccole arene sospese, ma senza pavimento: c’è solo la ringhiera, all’interno c’è unicamente acqua, esattamente come fuori. Non si capisce bene come faccia a stare in piedi una struttura simile, né tantomeno riusciamo ad immaginare a cosa serva: forse sono punti di pesca per l'attacco delle reti, o chissà cos'altro. Deve per forza avere a che fare con la pesca dato che è praticamente l’unica attività che si pratica qui. Vediamo ancora riuniti numerosissimi i caratteristici tralicci di legno, mentre le montagne, sempre senza vegetazione o popolate da pochi fili d’erba stentata e fragili licheni, formano delle strette gole e insenature raggiunte dall'acqua in ogni punto. Solo in alcuni punti le pareti rocciose degradano in una gola a forma di U, che per quanto bassa non lascia però intravedere nulla al di là di essa. Alcune montagne hanno persino delle tracce di neve nelle zone che rimangono perennemente in ombra! La neve in estate su una montagna a livello del mare è uno spettacolo che, se non fosse straordinariamente suggestivo, sarebbe quasi grottesco. Questi giganti di roccia cingono i villaggi come delle muraglie insuperabili, quasi a proteggerli dalle intemperie del mondo esterno, che potrebbe spazzare via queste casette delle favole così facilmente se volesse.
 
Hamnoy
Man mano che passiamo da un ponte all'altro, fermandoci sempre più spesso per la stanchezza che ormai la bellezza dei paesaggi non può più sopprimere a sufficienza, arriviamo alla cittadina di Hamnoy, dislocata in modo a dir poco bizzarro sugli scogli. I nostri stomaci reclamano qualcosa di commestibile, per cui cerchiamo un posto tranquillo dove poterci stravaccare a guardarci attorno in pace. Dopo un po’ di tentativi andati a vuoto ci fermiamo in una zona completamente rocciosa di fianco alla quale sono infisse una serie di case su palafitte, incastonate perfettamente nelle rocce lambite dall’acqua. Sono tutte case perennemente lasciate in affitto e al momento paiono disabitate, per cui possiamo permetterci di soggiornare fuori senza il timore di essere scacciati. Le alghe e i coralli che intravediamo nell'acqua bassa della costa sono un'infinità, così come sono numerosissimi gli uccelli che vociferano continuamente dicendosi chissà che cosa nel loro linguaggio a noi incomprensibile. Il sole è quasi a perpendicolo sopra di noi, mi viene quasi la tentazione di fare un bagno in quelle acque per rinfrescarmi un po’, idea subito accantonata non tanto per la mancanza del costume ma piuttosto per la paura di cosa mi potrebbe succedere una volta uscito ed esposto al vento fresco ed incessante che ci sferza vigoroso. Mi limito a lavarmi le mani con l’acqua del mare, cercando di pulirle da quella specie di colla di cui è sporco il coprimanubrio sinistro e che mi sta tormentando da quanto è appiccicaticcio. Il tempo passa rapido mentre osserviamo ogni angolo di isola, cercando qualche sorpresa che ancora non avessimo notato. Non troviamo più nulla di eclatante, ma le Lofoten in sé sono già sufficienti per dire di aver passato una giornata veramente fuori dal comune!
 
Moskenes
Ormai ripresi dalla fatica della pedalata, ma non dai dolori alle gambe che sentiamo dopo i quasi venti chilometri percorsi, torniamo indietro per non rischiare di tardare troppo la sera. Siamo molto dispiaciuti dal dovercene già andare, ma torniamo comunque pienamente soddisfatti, è andato tutto liscio come sperato. Anche stavolta, come successe al Preikestolen, il ritorno è duro tanto quanto l'andata: tutti i saliscendi si sono semplicemente invertiti, per cui conservano intatta la loro difficoltà. Non basta certo un'oretta scarsa seduti su una panchina per rimettersi come nuovi, da cui riprendo a soffrire come prima. Sono così stanco che percorro praticamente tutte le salite spingendo la bicicletta a piedi, le gambe non mi reggono quasi più non appena c'è da forzare un po’ sui pedali per superare una pendenza anche lieve. Sono scandaloso, lo so, ma non so cosa farci. Questa volta evitiamo le galleria prendendo le sterrate strade alternative, fiancheggiate da alberelli e percorse solo da qualche raro turista appiedato, per poi fare una sosta a Moskenes. Si rivela essere un buco più piccolo ancora di Å, con la chiesetta che funge da punto di riferimento alta solo pochi metri più del resto delle costruzioni. L’attracco per il traghetto conta ben otto corsie per le automobili, di cui tutte tranne una sono destinate ai veicoli e alle persone che tornano a Bodø, mentre la rimanente porta all’isoletta di Vadøy, poco più a sud. L'ufficio informazioni vende magliette delle Lofoten raffiguranti il sole di mezzanotte, tazze souvenir e perfino delle strane bustine di stoccafissi rigidi come il legno, così asciugati da contenere ben ottanta grammi su cento di proteine pure. Molto nutriente e soprattutto molto sano! Una prelibatezza che in più protegge dalle diffuse malattie cardiache.
All’esterno invece c’è una bacheca con esposti gli orari dei bus e dei traghetti, unico luogo in cui possiamo avere informazioni, dato che di avere volantini da mettersi in tasca non se ne parla nemmeno. Informatici bene su come muoverci in giro per l'isola con il trasporto pubblico, rimane solo da completare il giro del promontorio. Passiamo lentamente in mezzo alle onnipresenti travi di legno fittamente intrecciate, alcune delle quali recano stesa qualche malandata rete da pesca strappata in alcuni punti e probabilmente inutilizzabile.
Riprese ancora un po’ di forze, rifacciamo riprendiamo la via per Å. Ormai scendo praticamente per forza d'inerzia, non pedalo quasi più. Sono su un celerifero del 1800, quelli senza pedali, più che su una bici. Un memorabile scambio di battute tra me e Davide, durante una salita faticosa in cui stranamente sono rimasto in sella e abbiamo un fiatone pazzesco, è emblematico: "Ma come fanno quelli che fanno il giro d'Italia?" "Si dopano". "E quelli che non si dopano?" "Arrivano ultimi". Nella concitazione del momento queste poche frasi mi fanno scoppiare a ridere fragorosamente. Presto finisce questa agonia e stiamo nuovamente percorrendo le altalenanti stradine che conducono dritte al nostro alloggio.
 
Missione
Torniamo alle cinque e un quarto, scendendo lentamente nel centro del paese e posizionando direttamente le bici nei loro sostegni, non volendo averci più a che fare nemmeno per un istante più del necessario. Siamo distrutti dalla fatica ma largamente soddisfatti, e ritorniamo in camera per rilassarci il più possibile. Siamo ancora soli e lo rimarremo, nessun turista prenderà posto negli altri due letti quella notte. Possiamo finalmente lavarci e mangiare qualcosa. La sera siamo troppo stanchi per uscire, e passiamo il tempo a raccontarci del più e del meno e cercando di calcolare il calore irradiato dalla lampadina sopra di noi. Trovata la metratura cubica della stanza, calcolata partendo dalla capacità nota in litri dei nostri zaini, e il calore specifico prodotto dalla lampadina, possiamo dedurre a livello teorico che la nostra lampadina scalda di 6 gradi la temperatura della stanza ogni ora! Insomma un ottimo modo per far passare il tempo fondendosi il cervello inutilmente. Prenotiamo inoltre un ostello trovato all’ultimo minuto e non senza una lunga ricerca nella piccola cittadina di Svolvær, la capitale amministrativa delle Lofoten nonché città più antica del Circolo Polare Artico risalente all’epoca dei primi Vichinghi. Situata nella parte centrale della catena insulare e curiosamente gemellata con la nostrana città di Ancona, la preferiremo snobbando la ben più visitata turisticamente Stamsund. La ragione di questo diversivo è che a pochi chilometri da Svolvær si trova un piccolo ed insignificante villaggio di nome Kabelvåg, dove diverse decine di anni fa mio padre in viaggio per la Scandinavia come lo siamo noi ora incontrò una sua corrispondente radioamatrice come lui, di nome Laila, della quale non ha più notizie da circa una trentina d'anni. Tocca a noi ora tentare di riallacciare i contatti persi con la signora che sarebbe ormai settantenne, e coi figli Lars ed Erik ormai quarantenni, ammesso di trovarli e soprattutto di trovarli vivi. Il giorno successivo prenderemo l'autobus per Svolvær, preparandoci ad una solerte ricerca: tutto infatti in quel paesino è ormai cambiato, sia la geografia che le persone. Scivoliamo sotto il piumone, pensando alla giornata a venire e cercando di distogliere le percezioni dalla scomodità del letto, fino a passare nel misterioso ed interminabile mondo dei sogni, che oggi abbiamo potuto sondare senza doverci addormentare.
 
Svolvær
Come prevedibile, mi sveglio con un marcato dolore alla schiena, quel dannato materasso seppur imbottito con un piumone in più rubato al vicino letto vuoto non ha risparmiato le mie vertebre già non perfettamente sane. La partenza è fissata per le nove: il nostro pullman impiegherà circa tre ore e mezza per raggiungere la cosiddetta capitale amministrativa, che conta solamente 4.500 abitanti ma ha addirittura un aeroporto, tralaltro già presente ai tempi di mio padre.
Arriviamo con largo anticipo alla stazione dei bus, un enorme spiazzo asfaltato vuoto con un baracchino che funge da punto informazioni e biglietti, munito anch’esso di toilette a pagamento. Un sacco della spazzatura smembrato, probabilmente opera di qualche cane o gatto in cerca di cibo, ha riversato tutto il suo contenuto nella pensilina del bus, ma nessuno dei pochi presenti si cura di raccogliere i rifiuti, preoccupati tutti solamente di ripararsi dal freddo penetrante che si insinua in ogni angolo di pelle lasciato scoperto dalle giacche. Il cielo è molto più nuvoloso di ieri, oggi la gita in bicicletta sarebbe impensabile, troppo rischio di pioggia e soprattutto troppo freddo, senza l’ausilio del prezioso sole. Pagata la salata tariffa per il trasporto, ripercorriamo per l'ennesima volta la strada per Moskenes che ormai conosciamo a memoria, di aspetto lievemente mutato dal cielo coperto. Purtroppo è tempo di andarsene dal paese delle meraviglie.
 
Mentre costeggiamo l'oceano, finalmente liberi dal freddo e dal vento nel caldo ambiente del grosso pullman turistico, vediamo tantissime altre ringhiere circolari sospese come per magia in mezzo al mare, ma non un paio isolate, bensì in file di decine, tutte allineate. Di nuovo proviamo a immaginare a cosa possano servire e soprattutto come siano state costruite, ma non ci viene in mente nessuna spiegazione soddisfacente, da cui desistiamo e le rimuoviamo temporaneamente dalla memoria, riservando la curiosità a quando potremo informarci. Man mano che proseguiamo, la geografia e l'aspetto delle isole cambia radicalmente: le montagne cominciano a riempirsi di vegetazione superiore a muschi e licheni, il paesaggio da fiabesco si fa sempre più ordinario e più continentale, se vogliamo anche lievemente monotono, specialmente una volta abbandonata la costa per ripiegare nell'entroterra. I cartelli stradali a fondo verde, che qui non significano presenza di autostrade ma di strade ordinarie extraurbane, continuano a segnalare Svolvær lontano, lungo quelle strisce perfettamente asfaltate e vuote o quasi per decine e decine di chilometri. Aiuto il tempo a passare più in fretta rimettendo ancora una volta gli auricolari nelle orecchie e facendo scorrere un po’ di tracce nel lettore. Cerco sempre di conciliarle col paesaggio, scegliendo solo quelle più malinconiche ed evocative per accoppiarle alla perfezione con la natura e le condizioni atmosferiche. Le chitarre decadenti e tristi fanno tornare un po’ di nostalgia per il ridente paesino appena abbandonato, finchè un brano più deciso e potente risolleva il morale e mi ricorda che sto andando in missione, a cercare come un segugio questi vecchi amici con i quali mio padre tanto terrebbe a riprendere i contatti. Ce la dovrò mettere tutta per non deluderlo, anche se non mi è stato consegnato un ordine tassativo, bensì un semplice invito a fare questa ricerca se avessimo avuto tempo e voglia, non insistendo oltre nel caso che Kabelvåg fosse risultato difficilmente raggiungibile o lo fosse stato a costo una perdita di tempo non indifferente. Ma Kabelvåg è a due passi dalla nostra via, e io prendo l’incarico molto seriamente: quando mai mi ricapiterà di viaggiare in un posto così remoto potendo trovare delle persone che tanto tempo fa hanno avuto contatti con i miei parenti?
Mentre mi faccio tutte queste domande e mi pongo i miei propositi, è già ora di prepararsi: la piccola cittadina di Svolvær, anch'essa sulla costa e circondata da montagne stavolta verdi che formano un cerchio quasi completo, è segnalata a pochi chilometri dai cartelli stradali. Attraversiamo proprio Kabelvåg, che si trova esattamente sulla strada principale, cercando di carpire già qualche informazione, ma l'autobus passa senza fermarsi e non abbiamo modo di vedere quasi nulla, se non i lunghi cespugli di fiori viola che riempiono ogni angolo libero ai lati della strada.
 
L'arrivo a Svolvær è un po’ approssimativo: non sappiamo esattamente dove scendere, nè dove sia questa fantomatica piazza in cui dovrebbe trovarsi il nostro ostello, nè dove sia il punto informazioni, prima cosa da cercare in ogni posto nuovo che si raggiunge. Scendiamo alla fermata che ci sembra più centrale, riconoscendo quella che sembrava una piazzetta, scoprendo poi di aver mancato la fermata giusta: vagando per una decina di minuti in direzione stavolta indovinata, il punto informazioni finalmente appare, in una piazza molto più grande che dà direttamente sul mare. Un di punto di partenza per i traghetti appositi per la visita dei fiordi lofoteniani è presidiato da delle giovani bigliettaie in borghese che si guardano attorno speranzose di catturare qualche nuovo cliente, le bancarelle sono anche qui onnipresenti e gli uffici di cambio e banche in presenza consistente ci ricordano che siamo veramente in una piccola capitale. Preso il nostro numerino dalla macchinetta distributrice di turni, identiche a quelle che si vedono al supermercato, la ragazza dell'ufficio informazioni ci spiega dove dobbiamo andare: lontanissimo da dove siamo adesso. Un interminabile vialone da percorrere a piedi prima di voltare a destra per attraversare un quasi altrettanto lungo ponte curvo, ma non in senso orizzontale, bensì in verticale: è piegato come da una forza invisibile lungo un'accentuata forma a volta che deve sicuramente essere stata più difficile da costruire rispetto ad un ponte piatto. Questa enorme lingua di asfalto, che assicura vertigini ai deboli d’orecchio essendo altissimo sul mare, sovrasta i moli dove le navi da container ancora chiuse nei cantieri aspettano di essere varate. Si intravedono in lontananza le numerose industrie ittiche che mandano avanti tutto il paese qui come nel resto delle isole, le montagne stavolta lasciano un po’ di terra tra loro e il mare, non più gettandosi a capofitto in acqua con la loro vertiginosa pendenza. Superata la parte in salita del ponte, mentre sudiamo abbondantemente con addosso i vestiti pesanti e gli zaini più pesanti ancora, la discesa sembra non finire mai: camminiamo e camminiamo, ma le distanze paiono sempre uguali.
 
Possiamo renderci conto chiaramente della natura della zona in cui andremo ad alloggiare: è un porto industriale, con serbatoi per la benzina e il gasolio. Decine di pescherecci sono ormeggiati, alternati a qualche nave mercantile, con un olezzo di pesce penetrante che si sente dappertutto. Recuperate le chiavi del nostro alloggio, camminiamo ancora per qualche centinaio di metri verso il limite del molo, fino ad arrivare ad un malandato edificio squadrato e scrostato della vernice. L’unica nota positiva è che contiene una camera a due solo per noi: per il resto il panorama che si vede dalla finestra è orrendo, in primissimo piano c'è una cisterna della Esso, non possiamo aprire la finestra senza che la stanza venga istantaneamente invasa dalla puzza, un insolito misto tra pesce fresco e gasolio bruciato. I letti sono ai limiti dell'igiene, cosparsi di peli, capelli e forfora, o chissà quale altra sporcizia non meglio identificabile, che evitiamo rigorosamente di toccare. I bagni sono in fondo alle docce, con ingresso unico, per cui se uno si sta lavando tutto l'ostello deve aspettare per andare a fare i suoi bisogni, un modo di progettare le stanze decisamente poco logico. Dobbiamo rimanere lì due notti soltanto, per fortuna. Le lenzuola ci verranno recapitate più tardi dal custode che ora non vediamo da nessuna parte, senza di esse non osiamo nemmeno sederci su quei letti sporchi all'inverosimile, quindi lasciamo la stanza per cercare gli orari dei bus che fermano a Kabelvåg.
 
Kabelvåg
Il paese è piccolissimo e non sembra disporre di edifici pubblici significativi, a parte un ufficio informazioni dipinto di giallino sbiadito, con numerose bandiere di varie nazioni appese al suo esterno. Ha l’aria di essere quello l’unico ostello che il paese ospita, ma che stando alle nostre informazioni e alle telefonate effettuate dovrebbe aver chiuso proprio ieri. Il paese, nonostante sia un luogo insignificante e pochissimo abitato, ha un aspetto comunque moderno, ben curato, ci sono un ristorante ed addirittura un punto di prelievo automatico soldi. Prima di raggiungere il centro vero e proprio cerchiamo il cognome della donna sui campanelli e le cassette della posta di tutte le case che incontriamo, tutte rigorosamente di legno e verniciate con colori vivaci, ma senza successo: sono pochi i campanelli che recano un nome, e quei pochi che leggiamo sono del tutto diversi da ciò che cerchiamo. Oltretutto mio padre non si ricorda nulla nè della via in cui si trovava la casa nè tantomeno della casa stessa, comprensibile dopo tutti questi anni, quindi siamo completamente soli nella nostra ricerca. In centro proviamo per prima cosa a chiedere all'ufficio informazioni dove sia il municipio in cui trovare l'elenco dei residenti. In attesa che qualcuno ci dia retta, notiamo diverse chiavi appese al muro, deducendo che quello è proprio il fantomatico ed unico ostello di Kabelvåg. Stranamente alcune chiavi mancano e ci chiediamo se veramente sia tutto pieno lì, ma non abbiamo il tempo di pensarci ulteriormente: il giovane commesso biondo posa il telefono e ci rivolge finalmente la parola. Dopo la domanda che gli faccio mi guarda con aria un po’ spaesata, sembra non capire esattamente cosa intendo, forse per via della mia richiesta un po’ tentennante ed incerta. Oltretutto non sappiamo quale sia la parola inglese che sta per municipio, da cui facciamo un po’ fatica ad intenderci. Sembra che siamo capitati nel luogo sbagliato e che lì non ne sappiano nulla, o forse non c’è nemmeno un municipio qui a Kabelvåg, da cui desistiamo e tentiamo la fortuna nel ristorante della piazza a fianco: essendo l'unico in tutto il paese, sarà sicuramente frequentato da tutti, e sarà quindi probabile trovare qualcuno che abbia almeno sentito parlare di lei, o che meglio ancora la conosca di persona. Il locale è ottimamente arredato e nulla lascia intendere che ci troviamo in uno sperduto paesino delle Lofoten. Chiediamo informazioni al barista, che si mostra molto gentile e disponibile radunando tutto il personale e cercando qualcuno che conosca quel nome. Le voci dei ristoratori si alternano tra loro incerte, le poche informazioni che riceviamo sono piuttosto contraddittorie e non molto chiare: l'unica che troviamo incoraggiante è che potrebbe essersi trasferita vent'anni fa nella vicina isoletta di Skrova. Non è nemmeno troppo distante, si può raggiungere con tre quarti d’ora di traghetto, ma nessuno sembra realmente convinto di quello che sta dicendo a proposito dei signori Wilhelmsen, ci invitano solo a provare, già che siamo qui. Ringraziamo tutti per la loro cortesia e disponibilità, ed usciamo dal ristorante un po’ scoraggiati ma non ancora vinti.
 
Incerti sul da farsi, tentiamo altre strade, trovando quello che sembra un piccolo museo. Proviamo a chiedere al bigliettaio se conosca l'ubicazione del municipio del paese, cercando di farci capire con qualche espressione alternativa come “inhabitants list” o “administration”, ma anche lui ci indirizza all'ufficio informazioni appena visitato: in questo paesino evidentemente non c’è altro di importante. Decidiamo di tentare il tutto e per tutto, e di chiedere al commesso dell’ufficio direttamente il nome della donna, sperando che qualcuno la conosca. Il ragazzo stavolta si mostra molto più disponibile, anche se troppo giovane per poterci aiutare, avrà si e no trent'anni. Ci invita a tornare dopo un'ora, quando gli darà il cambio un uomo più anziano che potrebbe esserci di maggiore aiuto. La proposta è ragionevole: ringraziamo e ci congediamo, nell'oretta che abbiamo da aspettare andiamo a visitare la chiesa intravista durante il tragitto in pullman, che scopriamo poi essere la seconda chiesa in legno più grande della Norvegia. Esternamente colpisce molto lo sguardo, verniciata di giallino e marrone scuro, di aspetto squadrato ed austero, domina una vecchia baia ormai prosciugata dal mare e tappezzata di questi strani fiori viola che qui a Kabelvåg sono particolarmente numerosi. L'ingresso si paga venti corone ma non le vale effettivamente, dentro c'è poco da vedere. Usciamo presto, e Davide propone di cercare il camposanto: non è detto che la nostra Laila non si trovi lì. Lo troviamo subito, a pochi metri dalla chiesa, in mezzo ad un boschetto: come cimitero è decisamente grande per un paese così piccolo, ci dividiamo a cercare il nome sulle tombe, uno sull'ala sinistra e uno su quella destra, ma pur setacciandolo da cima a fondo troviamo solo un omonimia di cognome. Meglio così, almeno significa che la signora, seppur irreperibile, è viva. A meno che non sia stata sepolta altrove…
 
Torniamo in paese, ormai l'ora è passata e possiamo ritentare per l'ultima volta l'ufficio informazioni: questa volta ci sono due uomini, uno dall'aspetto più vissuto, con la pelle rugosa e i ricciolini a cascata su tutto il capo, l'altro dall'aspetto più giovanile, ma è quest'ultimo colui che ci viene presentato come l'esperto del luogo. Purtroppo tutti e due non conoscono nessuno con quel nome, l'uomo apparentemente più giovane prova anche con una telefonata, presumibilmente ad un ufficio informazioni di qualche altro posto vicino o forse a qualche suo amico esperto della gente del luogo. Li sentiamo parlare nella loro lingua captando chiaramente solo i due nomi pronunciati, di lei e del marito Knut, che però cadono nel vuoto: nessuna informazione, nessun ricordo. Ci rassegniamo temporaneamente e ci sediamo in mezzo alla piazza a mangiare qualcosa, guardandoci attorno per scorgere qualche eventuale anziano che stesse passeggiando e a cui possiamo fare qualche domanda, confidando in qualche suo ricordo di tanti anni fa, ma non abbiamo fortuna nemmeno qui. Non passa nessuno che possa aiutarci, solo qualche turista dall'aria distratta che passeggia per le anonime viuzze e presto scompare dietro l'angolo di qualche casa per non tornare più. L’unica signora che riusciamo ad individuare per il nostro scopo viene abbrancata da un gentile paesano che si offre di portarle le borse della spesa, prima che potessimo raggiungerla. I due iniziano a chiacchierare rumorosamente, da cui non ci sembra il caso di disturbare. Nisba. Oggi la fortuna sembra proprio averci voltato le spalle.
 
Attacco aereo
Tiriamo fuori i nostri ormai insopportabili panini con la mortadella, richiusa con lo scotch per non farla andare a male troppo velocemente, e frugando nello zaino mi accorgo di avere ancora qualche cracker di riso che mi sono portato da casa per fronteggiare i momenti di fame acuta non soddisfabile da un vero pasto. Ne sono rimasti tre pacchetti quasi completamente sbriciolati. Dopo i canonici panini Davide ha ancora fame e si allontana qualche minuto a comprare un hot dog al vicino spaccio, io d'impulso penso di offrire i crackers come cibo ai numerosi uccelli che passeggiano per la piazza lastricata, perennemente in cerca di briciole offerte loro da qualche generoso passante. Apro un pacchetto, stritolandolo prima tra le mani per polverizzare bene il contenuto, e incautamente ne getto un po’ a un paio di piccioni che mi stanno passando proprio ora vicino alle gambe: che idea malsana! In un attimo attiro una quantità impressionante di pennuti di ogni tipo, inclusi gli onnipresenti gabbiani, che in pochissimi secondi appaiono dal nulla e si fiondano sul cibo litigando e beccandosi tra loro. I volatili presi da frenesia alimentare si ammassano attorno al tavolo e alcuni ci salgono temerariamente sopra, scatenando le mie risate e l'ira del mio compagno di merende, che tocca l’apice quando un gabbiano rapace, ingolosito da un sacchetto di altri crackers salati lasciato imprudentemente aperto sul tavolo, scende in picchiata e fa razzia del cibo prima che possiamo avvicinarci per recuperarlo.
Davide mi guarda con aria indescrivibilmente seccata, vorrebbe uccidermi per quello che ho combinato, ma io non riesco a far altro che ridere. Non riusciamo a scacciare tutti quegli uccelli, hanno troppa fame per andarsene, e anche quando hanno finito di beccare anche l'ultima briciola rimasta non se ne vogliono andare, riconoscendomi come quello che li ha foraggiati prima e seguendomi nei miei spostamenti ovunque mi trasferisca. Siamo quindi costretti a traslocare di tavolo, mentre io uso gli altri pacchetti di cracker come esca lanciata sempre più lontano per attirarli nella parte opposta della piazza. Con questo simpatico diversivo si conclude la nostra infruttuosa missione a Kabelvåg, che abbandoniamo pochi minuti dopo.
 
Rinnovata speranza
Un po’ delusi dal fallimento della spedizione, siamo ancora ignari su come spenderemo il terzo giorno dedicato alle isole Lofoten. La gita sul fiordo viene presto scartata quando veniamo a conoscenza del suo prezzo: quarantacinque euro sono troppi per un paio d'ore di qualcosa che comunque siamo già abituati a vedere da parecchi giorni, per cui cerchiamo un'alternativa, ma non è esattamente facile trovare piani alternativi in un posto del genere. L'ufficio informazioni ci viene in aiuto quando ormai siamo proprio disperati e senza idee, essendoci resi conto che le poche attrazioni visitabili che ci sono nei dintorni non sarebbero raggiungibili per penuria di bus nel fine settimana. Ci viene consigliata una puntatina di una giornata all'isola di Skrova, proprio quella indicataci dai ristoratori come il posto in cui cercare Laila, assicurandoci che è in ogni caso un posto carino dove passare un pomeriggio. Vada per Skrova. La ricerca dunque non è ancora finita, qualche tenue speranza si sta riaccendendo, l’ultima fiammella superstite prima del soffio definitivo che ancora ignoriamo se stia per arrivare o no.
La mattina successiva ci alziamo molto presto per prendere il primo traghetto, che in tre quarti d’ora dovrebbe trasportarci su questo minuscolo appezzamento di terra e roccia al largo della costa, che vive interamente di pesca e caccia alle balene. Solo qualche rotatoria stradale e galleria da percorrere, stavolta a piedi, fino al porto: non vediamo anima viva che sta aspettando quel traghetto che dovrebbe partire da lì, cominciamo a preoccuparci e a pensare di aver sbagliato qualcosa, ma i cartelli non possono sbagliare e con chiarezza inequivocabile indicano il punto di partenza proprio lì, in quello spiazzo completamente deserto. Quando la nave lentamente si accosta e si apre per lasciar salire passeggeri e veicoli, la verità è presto svelata: siamo gli unici due temerari che quella mattina vanno all'isola. Senza di noi partirebbe vuoto. Imbarazzante, ma tutto sommato è divertente avere una nave tutta per noi, con i bigliettai e manovratori che ci guardano come bestie rare, probabilmente non ne vedono molti salpare a quest'ora per raggiungere un posto così deserto. Dopo queste premesse non possiamo fare a meno di chiederci che razza di isola misteriosa sia questa, i cui traghetti sono così desolatamente vuoti. Il battello si fermerà a Skrova per poi ripartire e raggiungere un’altra isoletta simile ma ancora più piccola, denominata Skutvika. Speriamo per i marinai e macchinisti che almeno ci sia qualcun altro da caricare più avanti, perchè far partire dei traghetti completamente vuoti non deve essere molto soddisfacente, anche se si viene pagati per farlo.
 
Skrova
All'arrivo a Skrova troviamo il minuscolo porto completamente deserto, con un singolo punto di attracco per le navi e un'altrettanto singola corsia per il carico dei veicoli, anche loro assenti. Appena messo piede a terra e lanciato un'occhiata circolare a quel che vediamo del paese, capiamo subito di essere capitati in un vero e proprio villaggio fantasma: nessuno in giro, silenzio di tomba, tranquille casette con giardino ben tenuto tutte con le tende tirate, due panchine in croce dalla curiosa forma a stella nella minuscola piazza adiacente al molo, un unico alimentari che apre alle dieci di mattina, col marchio della catena Coop infisso sopra l'entrata. Detto così, potrebbe far pensare ad un grande magazzino, ma il suddetto mercato non è un grosso parallelepipedo bianco come siamo abituati a vedere: sarà grande si e no come un minuscolo bar di provincia, suscitando non pochi sorrisi e commenti da parte nostra. Questa è Skrova, e nulla di più: nonostante la desolazione che si avverte nell'aria, ha una sua attrattiva: mi affascinano sempre questi luoghi così dimenticati e fuori dal mondo. Delle volte sogno perfino di abitarci, per sfuggire al mondo a cui sono abituato, così comodo ma anche così artefatto.
Skrova è inoltre popolata da tantissimi gatti: ne vedremo almeno una decina nella giornata che passeremo lì, stupendi felini notevolmente pelosi e altrettanto pesanti, con le zampe forti e muscolose indispensabili per cacciare le prede che si nascondono nei fitti ed estesi boschi norvegesi. Per questi animali deve essere un paradiso vivere qui: hanno tutto il pesce che vogliono e la probabilità di essere investiti da un'automobile, la loro più acerrima nemica senza odore nè respiro, è prossima allo zero.
 
In questi stretti e polverosi viottoli vediamo un paio di vecchie automobili, che in Italia non circolano più da decenni, entrare pigramente in qualche stradina secondaria, sbuffando e traballando sotto il peso di qualche mobile caricato nel capiente bagagliaio. Poi un anziano signore che aspetta che la locale Coop apra per andare a comprare il pane della mattina (confezionato, perchè di pane fresco non se ne parla, a meno che lo vendano da qualche altra parte). Una delle poche persone che incrociamo è una giovane signora con gli occhiali da sole che ci riconosce subito come turisti, e vedendoci vagare senza meta girando la testa qua e là cercando qualcosa di anche solo vagamente stimolante, ci offre il suo aiuto. Rispondiamo di non avere bisogno di particolari indicazioni (per dove, poi?), ma approfittiamo per spiegarle che stiamo cercando l’introvabile signora Laila che secondo le nostre poche informazioni dovrebbe essersi trasferita qui, lei scuote il capo ma si offre di provare a chiedere alla gente del posto: ci conduce in un punto dove è seduta una signora decisamente attempata, con una rosa di capelli grigi, a giudicare dalla sua pelle ha come minimo novant'anni. Si parlano un po’ in lingua locale, ma niente: l'anziana donna ha vissuto qui da sempre e non ha mai conosciuto nè sentito parlare di nessuno che si chiami in quel modo. La ricerca finisce ufficialmente qui, è ormai chiaro che queste persone non le troveremo mai.
 
Il giro dell’isola
Cosa ci rimane da fare, a parte la spesa nel minuscolo negozietto dal tanto famoso marchio? L'unico interesse dell'isola è quello naturalistico, che è anche il nostro principale interesse dell’intero viaggio, da cui ci impegniamo nel completare il giro dell'isola. Inizialmente vogliamo tentare la scalata alla montagna più alta dell’isola, nulla di che ma un punto perfetto per ammirare il panorama. Sbagliamo però strada, e ci troviamo sul percorso del giro a 360°, da cui decidiamo di proseguire per quella via. Delle banderuole arancioni penzolanti da dei pali di legno infissi saldamente nel terreno ci indicano la strada in modo abbastanza regolare, un momento ci troviamo nel sottobosco tra gli alberi che ci coprono come in un tunnel, un altro momento siamo sulle rocce ricoperte interamente da muschi, licheni e cardi che crescono invadendo ogni spazio disponibile, in un altro ancora siamo in riva al mare su dei massi enormi pieni zeppi di conchigliette portate dalle onde che da millenni bagnano queste coste immacolate o quasi. Il silenzio è completo, rotto solo dall'incespicare dei nostri passi su una roccia un po’ scivolosa o instabile, oppure dal muschio secco e dalle eriche calpestate che crepitano e ci riempiono le scarpe di fastidiose spine. Ogni tanto mi devo fermare a toglierle, quando mi sembra di camminare su un letto di chiodi.
 
Il fascino di quell'isola così selvaggia e incontaminata è notevole: sul suolo crescono innumerevoli mirtilli e bacche rosse opache non meglio identificabili, forse ribes ancora immaturi. Le particolari sostanze nutritive depositate ivi dall'acqua creano un ambiente in cui riescono a vivere rigogliose delle specie di piante che alle nostre latitudini crescono solo in alta montagna e in precario equilibrio, un altro aspetto peculiare delle sfaccettate Lofoten. Non ce n’è, queste isole hanno davvero qualcosa di speciale. Cespugli di splendidi fiori molto simili ad azalee spuntano ogni tanto da qualche avvallamento nel terreno, insieme ad arbusti dalle foglie rosse ed arancioni che costeggiano intere parti di sentiero. A volte intralciano anche un po’ il cammino con i loro rami tesi che rimbalzano all'indietro colpendo il successivo escursionista se non sta alla distanza di sicurezza adeguata. Ogni tanto qualche buca piuttosto profonda in mezzo al sentiero mi fa sussultare proprio mentre sto per posarci il piede sopra: nascosta dai lunghi fili d’erba che si piegano su di essa come a proteggerne l’entrata, metterci il piede sopra significherebbe sprofondare con buona parte della mia statura, quasi sicuramente insozzandomi di fango creato dai torrentelli che ogni tanto si sentono scorrere. Questo succede più di una volta, ma dopo la prima sto molto più attento ed evito agevolmente le successive buche. L'unico rumore è quello del vento oceanico e delle risacche che non producono mai due volte lo stesso suono in milioni di anni, in un avanti e indietro che è sempre stato e sempre sarà: per il resto tutto tace. Sentirsi così profondamente in contatto con la natura è un'esperienza bellissima ed estremamente gratificante, che purtroppo oggi capita raramente di vivere appieno. Siamo completamente soli: non si sente nessun fastidioso vociare, nessun commento inutile, nessun cicaleccio sovrabbondante. Di fronte a noi qualche isoletta ancora più piccola, costituita unicamente da rocce coperta da muschi e licheni, stavolta completamente disabitata e visibile in ogni sua parte, fa la sua bella figura in mezzo al mare, indisturbata dalla presenza umana.
 
Proseguendo lungo la costa della collina, sbarrata dalle rocce e impossibile da percorrere ulteriormente, il sentiero muta bruscamente in roccioso e tortuoso, virando verso l’alto, decisamente ripido: più volte perdiamo la strada e finiamo dentro i cespugli spinosi, che scricchiolano sotto i nostri piedi come il vetro sottile di lampadine infrante in mille pezzi, facendoci sprofondare in un equilibrio costantemente instabile fino all'ultima salita. Dobbiamo salire per dei gradini scavati nella roccia molto faticosi da superare, che creano delle piccole grotte dove un esploratore in difficoltà potrebbe passare una soddisfacente notte al riparo. Finalmente in cima la visuale si riapre sulla vallata sottostante: il paese appare così piccolo e insignificante da lassù, ancora più di prima. Una bianchissima spiaggia sulla destra unisce come un ponte naturale l'isola su cui poggiamo i piedi con un'altra più piccola, sulla quale spiccano due solitarie casette bianche, apparentemente ben tenute e per nulla diroccate come ci si potrebbe aspettare. Sullo sfondo vi è una lunga catena di montagne quasi esclusivamente rocciose, che solo in pochi punti si apre per consentirci la vista del mare che si estende oltre, ed è sovrastata da nuvoloni grigi che però non riversano nemmeno una goccia d’acqua. Una breve sosta sul crinale, per poi ridiscendere per un sentiero ancora più difficile, fatto di continui salti tra una roccia e quella sottostante, abbastanza bassi da poterli superare con un balzo e abbastanza alti da farsi male ai piedi atterrando con tutto il peso in una volta sola. Scivolando ed incespicando raggiungiamo di nuovo il sentiero battuto, fiancheggiato dall’onnipresente vegetazione del sottobosco. Un grande sollievo per i nostri piedi imprigionati dentro delle scarpe ormai sempre più consumate, le mie tralaltro sono completamente inadatte alle camminate su questo tipo di terreno, essendo fatte di tela flessibile e dotate di suola troppo bassa. Il giro dura poche ore, ma è molto intenso: i luoghi deserti e silenziosi come questo sono un toccasana per me. Anche questo è un altro posticino candidato ai miei giorni di pensionamento, che ora per fortuna sono ancora molto lontani.
 
I gatti
Abbiamo ancora diverse ore da passare a Skrova, prima che l'unico traghetto disponibile venga a recuperarci intorno alle sette e mezza, per cui dobbiamo inventarci qualcosa da fare, a parte mangiare le vivande della piccola Coop. Ritornando in piazza trovo un bellissimo ma non molto socievole esemplare di gatto delle foreste norvegesi puro al 100%, talmente peloso da sembrare un peluche fuori misura. In un impeto di sconsiderato ottimismo lo sollevo, esponendomi al rischio di graffiate, ma la bestiola sembra starsene tranquilla. Pesa parecchio! Davide mi scatta una foto mentre lo tengo saldamente tra le braccia, e un attimo dopo che la foto è stata impressa sul rullino il gatto si libera dalla presa con una mossa improvvisa e scappa. Questo si chiama tempismo!
 
Ad un’altra estremità dell’isola troviamo solamente quello che sembra un faro ma poi si rivela un centro di controllo per i cavi dell'alta tensione, che qui scorrono in parte appesi ai tralicci e in parte a terra, ben isolati in mezzo al sentiero battuto che poco prima abbiamo percorso. Lungo la strada non resisto al fascino di uno scivolo e di un'altalena, tra la benevola disapprovazione del mio compare che si rifiuta categoricamente di salirci. Tornando dopo poco nella piazza principale, in cui qualche essere umano come noi stavolta c'è, ci sediamo involontariamente a fianco di un nido di vespe, della cui presenza però ci accorgiamo dopo svariati minuti, quando dei bambini incoscienti iniziano a bombardarlo con dei sassolini. Gli insetti visibilmente innervositi cominciano ad uscire uno dopo l’altro vorticando rabbiosamente attorno al nido, abbiamo paura che possano prendersela con noi. Stiamo per sbaraccare e spostarci da un'altra parte, ma le vespe si calmano presto, e possiamo continuare le nostre partite di briscola senza danni. Quando siamo stanchi di trafficare con cuori e picche, facciamo un giro anche nell’ultima parte del paese, seguendo la costa: vuota e smorta anche questa zona (che novità!), sembra proprio un villaggio abbandonato da Far West americano, se non fosse per dei simpaticissimi gattini di pochi mesi che non hanno paura di noi e hanno solo voglia di giocare un po’. Si fanno anche prendere in braccio, sono veramente teneri, come tutti i cuccioli di qualsiasi animale. Quando iniziano a rincorrersi tra di loro infilandosi nelle siepi e nelle pallide staccionate delle case, li lasciamo divertire e proseguiamo per il polveroso viale, trovando macchine parcheggiate vecchie come minimo di trenta o quarant'anni, più dei grossi blocchi di cemento e travi di ferro abbandonati sulla riva. Probabilmente sono destinati alla costruzione o alla riparazione delle navi baleniere, che partendo da qui uccidono ogni anno centinaia e centinaia di questi esemplari tingendo di rosso gli oceani e rischiando di causarne l'estinzione, indifferenti alle pressioni internazionali.
Ormai un po’ stufi di girare per quelle stradine deserte, ce ne torniamo in piazza, per essere pronti all’arrivo del traghetto. Chissà se ancora una volta sarà vuoto. In piazza assistiamo a delle animate lotte di territorio ingaggiate da altri tre felini autoctoni, che si rincorrono e si punzecchiano come dei bambini per decidere chi tra loro avrà il dominio di quella zona. Ci divertiamo ad osservarli mentre si scrutano prudentemente dalle loro posizioni di guardia, ogni tanto facendo qualche piccolo scatto per poi muoversi in tutt’altra direzione, da veri tattici di guerra. Ancora una volta, i gatti sono gli animali più belli ed affascinanti del mondo.
 
Strano essere
Finalmente vediamo in lontananza una piccola nave arrivare: i pochi turisti si avvicinano tutti al molo, noi inclusi, e sentiamo ancora una volta frasi pronunciate in italiano, stavolta in puro dialetto napoletano. È una vera persecuzione. Dal traghetto, lentamente accostatosi al molo, scendono stavolta parecchie persone, che probabilmente sono di ritorno da Skutvika. Se all'andata avevamo l'imbarazzo della scelta per sederci, al ritorno i posti sono pochi e preziosi, e per le nostre gambe stanche ora sono assolutamente necessari. Da cui ce ne accaparriamo velocemente due, custodendoli gelosamente fino all'arrivo a Svolvær. Appena sbarcati facciamo la spesa per i giorni successivi in un grande magazzino, dato che non vedremo più per qualche giorno un ostello o un locale dove mangiare. Arriviamo proprio mentre stanno chiudendo, riusciamo a fare la spesa al volo. Mi metto a cercare febbrilmente le bustine di stoccafisso, presto usciremo dal Paese e probabilmente non ne troverò più, è l’ultima occasione che mi si presenta di provare questo tipicissimo prodotto. Per quanto giro il supermercato, non le trovo: tuttalpiù veniamo più volte in contatto con un essere umano di dubbia provenienza, coi capelli neri lunghi che paiono sott’olio, i vestiti stracciati e una bottiglia vuota in mano, che si aggira per il supermercato sbuffando e facendo strani versi a chiunque involontariamente gli si pari davanti. Sembra che sia convinto di essere su un altro pianeta dall’espressione che ha negli occhi pericolosamente infossati, dimostra settant’anni ma forse non raggiunge nemmeno i cinquanta. Mi inquieta un po’, continuando ad andare avanti e indietro proprio a fianco a me, anche se dopo i primi versi che mi ha buttato in faccia sembra non curarsi più della mia presenza. Affrettandomi a finire la spesa per liberarmi il prima possibile del curioso personaggio, all'ultimo riesco a trovare le bustine di stoccafisso! Appena pagato dobbiamo subito uscire in fretta e furia: incalzati dagli inflessibili commessi che non possono ritardare nemmeno di un minuto a chiudere l’ipermercato, finiamo sotto la pioggia che guarda caso inizia anche lei a cadere proprio in questo momento. Dello strano personaggio fortunatamente non v’è più alcuna traccia. Il ritorno con addosso i kee-way e le borse della spesa da tutte le parti è lungo e noioso, ma termina anche lui e possiamo finalmente dormire la nostra ultima notte nel nostro buco di ostello. Per cena tento di mangiare lo stoccafisso così come l’ho comprato, peccato che non riesco nemmeno a staccarne un pezzettino minuscolo da quanto è duro! Ha la consistenza di un pezzo di legno. Solo una volta a casa scoprirò che andava cucinato a dovere prima di poter essere commestibile. Ora si dorme: domani si riparte alla volta di Narvik, uscendo definitivamente dalle lande norvegesi per non più ritornarvi. Lande che ci hanno regalato grandissime emozioni e degli splendidi ricordi che ci porteremo dentro per sempre.
 
Addio Norvegia!
Ci attende una giornata intera in movimento, per raggiungere il nostro punto di riferimento in Svezia, la cittadina di Luleå. Anche in questo caso non abbiamo informazioni di alcun tipo su di essa, né tantomeno su questo fantomatico ostello ivi presente, che non riusciamo a contattare per telefono e del quale non conosciamo nemmeno l'indirizzo. Dovremo andare un po’ alla cieca, sperando in un pullman notturno che ci porti immediatamente in Finlandia. Se va tutto male, dormiremo in stazione, sempre sperando di trovarla aperta.
La mattina ci alziamo fin troppo presto, abbandonando con soddisfazione il puzzolente ostello, per prendere il bus che ci riporterà sul continente fino a Narvik, distante qualche centinaio di chilometri. Essendo domenica, non c'è assolutamente nessuno in giro nè niente di aperto, nemmeno il più grande dei supermercati. La luce è già forte, ma la cittadina dorme ancora, sembra proprio che non si voglia svegliare. Le uniche cose che si vedono muoversi sono le cartacce per terra che si spostano di qualche centimetro sospinte dal vento, due solitarie automobili cariche di persone che passano lentissime ed incerte lungo il larghissimo vialone per poi scomparire, e null'altro. Mentre aspettiamo, camminando su e giù per il marciapiede della nostra fermata, cerchiamo di distogliere i nostri pensieri dalla preoccupazione per la nottata che ci attende, ma l'attesa è lunga e i pensieri sono difficili da controllare. Non siamo nemmeno sicuri di riuscire a prendere la nostra coincidenza una volta a Narvik, anche se sappiamo bene che sia i bus che i treni scandinavi sono spesso in perfetto orario. La malinconia per il dover lasciare la Norvegia si fa sentire molto forte, e ci accorgiamo di aver avanzato più di trecento corone che non abbiamo idea di come spendere. Una vera seccatura poichè nè in Svezia nè in Finlandia le accetteranno più, costringendoci a cambiarle con tassi di interesse assolutamente imprevedibili. L’autobus arriva finalmente a prelevarci, dopo che abbiamo per un attimo pensato di non vederlo più arrivare. Avendo scoperto giusto il giorno prima che il biglietto interrail ci garantisce lo sconto del 50% sugli autobus delle Lofoten, stavolta paghiamo considerevolmente meno. Un peccato non averlo scoperto prima quando dovevamo arrivare a Svolvær, ma pur sempre meglio tardi che mai. Ci mettiamo comodi per il lungo tragitto che ci aspetta: arriveremo più o meno per le due e mezza. Il paesaggio della parte più a nord delle Lofoten non è più nulla di particolare: bello da vedere sì, ma tutto sommato abbastanza piatto, quasi continentale. Le montagne sono molto simili a quelle nostrane, ricoperte di vegetazione ormai quasi completamente, vi sono pochi tratti sull'acqua degni di nota, e tanti anonimi svincoli stradali. Continuamente sballottati in mezzo a tutte queste curve, passiamo il tempo ancora una volta con un po’ di sana musica nelle orecchie, fedele compagna che non tradisce mai.
 
Narvik
Dopo sei ore di pullman siamo di nuovo nella Norvegia continentale. I ponti che uniscono le Lofoten alla terraferma e ci permettono di non dover più prendere mezzi navali sono relativamente recenti: quando mio padre decenni fa era qui non esisteva niente di tutto ciò. L’ultima striscia di asfalto e cemento sospeso che ci unisce alla terraferma è lunghissima, il ponte appare molto moderno. La cittadina di Narvik è ancora oggi relativamente importante, famosa per essere stata pesantemente bombardata dalle truppe tedesche durante la seconda guerra mondiale per accaparrarsi il ferro ivi prodotto, tanto caro all'industria bellica nazista. Nonostante tutta questa storia alle sue spalle, la sua stazione è letteralmente un buco: piccolissima, deserta e ridotta al minimo indispensabile. Le serrande della biglietteria sono chiuse e non c'è nulla che presagisca che si debbano aprire nel pomeriggio, probabilmente a causa della chiusura domenicale. Ma a chi arriva e deve partire proprio quel giorno nessuno ci pensa? E se non avesse il biglietto già pronto? Fortunatamente il nostro fidato cartoncino dell'interrail è pienamente valevole per un treno come quello diretto a Luleå, che non necessita di prenotazione anticipata non essendo particolarmente importante nè con i posti preventivamente assegnati. Il tabellone per le partenze è decisamente mal progettato: mostra gli orari in modo un po’ confuso, per poi lasciare il posto a minuti e minuti di informazioni pubblicitarie che non servono a nessuno, costringendo chi sia arrivato proprio in quel momento ad una lunga attesa per sapere quando arriverà il suo treno. Siamo comunque in orario, possiamo metterci comodi ed addirittura usufruire dei bagni senza pagare nemmeno una corona, una vera rarità qui in Norvegia. Crollano tutte le speranze di riuscire a spendere almeno una parte del denaro locale residuo: dentro e fuori dalla stazione non c'è assolutamente nulla, nemmeno uno straccio di chiosco che venda giornali o caramelle, niente. L'unica cosa in cui troviamo da spendere soldi è un telefono pubblico, che tentiamo di utilizzare per chiamare nuovamente l'ectoplasmico ostello di Luleå, ma ancora una volta il numero non è funzionante e il telefono per giunta ci mangia le venti corone che gli abbiamo regalato per farci fare la telefonata. Non è la prima volta che il telefono pubblico ci mangia i soldi, e iniziamo ad essere stufi. Farsi fregare da una macchina non è esattamente il modo migliore di buttare via i risparmi, da cui accantoniamo per sempre i telefoni pubblici, fidandoci solo del cellulare.
Mentre mi guardo intorno seduto su una delle panche all'interno, un viaggiatore confuso dall'ambiguo tabellone che facciamo tutti fatica a interpretare si avvicina timidamente per chiedermi qualche informazione su come potrà arrivare a Stoccolma in giornata. Dopo aver decifrato le partenze purtroppo sono costretto ad informarlo che il suo treno è già partito la mattina, e che dovrà accontentarsi di fare tappa intermedia un po’ più su. Dalla sua espressione capisco che c’è chi sta peggio di noi in quanto a spostamenti, ma non siamo comunque molto più fortunati di lui: abbiamo sì il treno pronto, ma niente di più, nessuna informazione sulla destinazione e tantomeno certezze. Davide trova un elenco telefonico della zona abbandonato sul bancone, e gli balena l'idea di cercare lì la nostra introvabile signora Laila: scorrendo le pagine piene zeppe di nomi di abitanti di tutte le Lofoten incontriamo due omonimie esatte, una di lei e una del marito. Le comunico ai genitori a casa, ma si rivelano abitanti di Narvik che non hanno nulla a che fare con le persone che stiamo cercando.
Le speranze di trovarli, distrutte e ridestate tante volte, crollano ora definitivamente.
 
Svezia
Il treno che arriva poco dopo ha le carrozze specificatamente divise per destinazione. Alcune si staccheranno a metà strada e proseguiranno in un'altra direzione: una sola di esse ferma a Luleå, qualche altro centinaio di chilometri più a est. Per raggiungerla ripasseremo di nuovo dal Circolo Polare Artico, abbandonando le terre del sole perenne per non tornarvi più. Prendiamo posto liberamente sulla carrozza, il controllore valida i nostri biglietti stupendosi che non parliamo svedese (non si nota che siamo italiani?), e possiamo finalmente dare l'ultimo vero saluto alla Norvegia. Dopo una mezzoretta dalla partenza la voce del capotreno amplificata dall’altoparlante ci informa che abbiamo oltrepassato il confine e stiamo entriamo nella ben più vasta Svezia. Qui il paesaggio è decisamente diverso da quello a cui siamo ormai abituati. I fiordi e le maestose montagne onnipresenti lasciano spazio a delle interminabili foreste di conifere alternate a betulle nane, talmente regolari che sembrano una piantagione più che un bosco. Ogni tanto qualche grossa montagna rocciosa si intravede, raramente qualche palude e fiumiciattolo, nel complesso è tutto decisamente monotono. Vediamo altri due arcobaleni, affascinanti come sempre, in qualunque posto e condizione li si osservi. Che sia anche questo un presagio di quanto di buono ci aspetta in territorio svedese?
Nella sterminata campagna che attraversiamo stanno girando stancamente delle pale eoliche, con un variopinto tramonto sullo sfondo che non può non emozionare anche il più insensibile dei viaggiatori. Per vederlo dobbiamo girarci continuamente, ma a costo di farmi venire il torcicollo non posso perdermi lo spettacolo. Stento a credere che quel gioco di colori sia dovuto unicamente al pulviscolo atmosferico che devia i raggi solari tingendo di rosso e arancione il cielo. Riconosco che è l’espressione palese di una potenza nascosta ed onnipresente, che non siamo in grado di indagare ma che lancia segnali così inequivocabili da non poter essere ignorati.
Incrociamo un'industria di legname, anche qui come in tutta la Scandinavia particolarmente grandi e diffuse, essendo il commercio del legname una delle principali forme di sostentamento e di creazione di posti di lavoro. Centinaia di tronchi grezzi ammassati assieme, in attesa di essere lavorati e trasformati ora in una sedia, ora in una scarpiera, ora in una scrivania. Probabilmente abbiamo tutti in casa qualcosa che proviene dalle foreste nordiche, dato l'enorme sfruttamento delle zone boschive. Treni merci interminabili solcano lentamente le rotaie in direzione opposta alla nostra, ci divertiamo a contare il numero dei vagoni, il più lungo ne ha ben sessantotto, di forma triangolare che mi ricorda molto i classici vagoni per il trasporto del carbone. La disarmante ma affascinante monotonia del paesaggio rallenta l'incedere del tempo, nonostante stiamo sfrecciando molto velocemente sulle rotaie. Il mistero del tempo, così uniforme per un osservatore insensibile alle vicende umane e così mutevole quando vissuto nella dimensione dell'anima, è un altro che temo non verrà mai compreso.
 
Luleå
Alle undici, ora del nostro arrivo, c'è ancora una discreta luce. Prima rivelazione poco incoraggiante è che la stazione dei treni è irrimediabilmente chiusa. Dobbiamo scendere e fare il giro per uscire immediatamente dal perimetro della stazione, prima che chiudano anche i cancelli. La poca gente che è scesa insieme a noi dalla carrozza si allontana in tutte le direzioni, disperdendosi nelle strade. Rimaniamo solo noi due, probabilmente gli unici senza una sistemazione sicura. La nostra prima priorità è in ogni caso quella di trovare un autobus notturno che ci porti subito ad Haparanda, al limite tra la Svezia e la Finlandia: un buon colpo di fortuna ci permetterebbe di percorrere più strada possibile in meno tempo, e non meno importante, di avere un posto comodo e al caldo su cui dormire. Purtroppo apprendiamo subito che anche la stazione dei bus ha le porte bloccate da robuste serrature e riaprirà solo la mattina seguente alle sei e mezza. È tutta illuminata all'interno con le sue panche di legno vermiglie, stranamente divise dal bracciolo sulla due terzi invece che a metà, ci sono delle verdissime piante ornamentali che fanno la loro bella figura e i tabelloni interni sono quasi sgombri da informazioni. Quello esterno alla stazione segna solo pochissimi autobus, per giunta in arrivo e non in partenza da essa, ognuno a mezz’ora circa di distanza dall'altro. Mentre aspettiamo che l'automezzo arrivi così da chiedere informazioni all'autista sulle partenze imminenti o alla peggio su un eventuale ostello o albergo a buon prezzo nelle vicinanze, comincio a preparare la panca per la notte in stazione ormai più che probabile. Allestisco solo un posto, dovendo uno di noi rimanere sveglio a turno per fare la guardia: nonostante la stazione non appaia come una zona malfamata e abbiamo addirittura la stazione della polizia dall'altra parte della strada a non più di trenta metri da noi, è meglio essere prudenti. Stendo asciugamani, giacche, vestiti inutilizzati e qualsiasi cosa che possa rendere più morbida la panca, ma con scarsi risultati: sdraiandomici sto scomodissimo, il braccio sinistro non ha spazio vitale e per stare minimamente comodo dovrei tagliarmelo via. Tutte le panche sono conformate così, da cui anche cambiandola non otterrei miglioramenti. Oltretutto i dolori nelle zone di appoggio non tardano a farsi sentire dopo appena qualche minuto. Passano più volte sulla strada un paio di sbandati a bordo di un rumorosissimo motorino, poco distanti da noi. Urlano ed aprono il gas completamente, facendo un baccano infernale. Li maledico apertamente per avermi ridestato mentre stavo forse trovando la posizione giusta per addormentarmi, ma per fortuna svaniscono anche loro per le strade della città, senza più ritornare. Mentre decido di rinunciare al mio proposito di dormire su quell'asse di legno, arriva il primo autobus: Davide corre subito a chiedere informazioni sulle tratte notturne, lo seguo con lo sguardo speranzoso ma non troppo. L’autista non dispone di tutti gli orari degli autobus internazionali, da cui ci invita ad aspettare il prossimo: è quasi certo che in quell’autobus, proveniente da più lontano, vi siano. Così aspettiamo altri venti minuti, meditando possibili soluzioni su posti alternativi per dormire, ma non trovando nessuna opzione soddisfacente: le chiese a quest'ora sono tutte chiuse dalle loro enormi serrature, nonostante all'origine della loro storia fossero state concepite anche come rifugi per dei cristiani senzatetto in difficoltà, che sarebbero stati accolti a braccia aperte nella casa di Dio. La stazione stessa è ben chiusa e protetta da sistemi di allarme efficientissimi, bagni pubblici aperti zero, insomma il nulla. La temperatura non sembra nemmeno troppo bassa, pensiamo di poter resistere tranquillamente per una notte fuori, magari divertendoci anche in quella situazione mai vissuta e per questo anche un po’ intrigante. Ma ci sbagliamo…
 
Aiuola
Il secondo ed ultimo autista arriva col suo mezzo e ci informa che il prossimo bus per Haparanda parte l’indomani alle otto e mezza di mattina, prima non c’è assolutamente nulla. Ci guardiamo pensando la stessa cosa: siamo nella palta fino al collo. Prima di sparire definitivamente insieme al suo bus ormai vuoto, l’autista ci consiglia un albergo poco distante dove tentare di trovare una sistemazione per la notte. Nisba: le porte sono sbarrate, si può entrare solo digitando un codice sulla tastiera a muro, che logicamente non conosciamo. Così ritorniamo verso la stazione passando attraverso una collinetta erbosa con qualche albero sulla sommità, poco distante dalla stazione e dall'adiacente negozio di dolciumi, illuminato solo all’interno da una flebile luce di guardia. Decidiamo di usare quella piana erbosa come giaciglio improvvisato per la notte. È decisamente più comoda di una panca di legno, se non altro ci si può sdraiare liberamente senza impedimenti agli arti e ci possiamo girare senza cadere. Il freddo inizia ad aumentare, perciò ci copriamo con tutti i vestiti che abbiamo a disposizione, incluso il kee-way. Degli asciugamani stesi sull'erba fradicia di condensa fungono da materasso per non bagnarsi completamente e per stare un po’ più comodi, gli zaini circondano il punto in cui poggia la testa così da isolare il più possibile dal vento, i piedi sono infilati in un sacchetto di plastica per ridurre al minimo la dispersione del calore. Abbiamo da due a tre strati di pantaloni addosso, e pure abbiamo freddo. Tocca a me tentare di dormire per primo, ma non se ne parla proprio di addormentarsi: il poco sonno residuo ora mi è passato completamente, sono nella fase in cui si darebbe qualsiasi cosa per scivolare nel sonno ma il corpo non collabora. Capendo che di questo passo non ci riuscirò mai, cedo volentieri il mio posto a Davide e vado a farmi un giro nella stradina sottostante, in realtà una pista ciclabile. Dalla nostra posizione sopraelevata possiamo vedere tutti gli edifici attorno, tutti con le luci rigorosamente spente, tranne la stazione. Quell'ambiente riscaldato ed illuminato è terribilmente invitante, ma assolutamente inaccessibile. Solo per un attimo una persona si avvicina alle pesanti porte per controllarle: è un addetto alla vigilanza, che dopo aver controllato che gli allarmi siano in funzione riparte senza più farsi vedere. Gli unici esseri umani che rimangono in zona sono un paio di tassisti, che nella loro macchina riscaldata stanno fermi per qualche minuto prima di ricevere una chiamata e ripartire, sparendo anche loro dalla nostra vista.
 
Stella cadente
La rossastra luce del sole, fioca ma costante, si intravede sopra l'enorme centro commerciale torreggiante davanti a noi, come un'alba dormiente che non si risveglia mai. Un altro momento decisamente magico: nonostante la situazione sia piuttosto disagevole, per un attimo le percezioni sgradevoli passano in secondo piano osservando nuovamente quei ben conosciuti colori. È la notte di San Lorenzo: sarebbe veramente un bel colpo riuscire a vedere una stella cadente. Così rivolgo gli occhi al cielo: grazie al cielo in buona parte limpido vedo le lontanissime stelle che a milioni di anni luce da noi bruciano ed esplodono in una frazione di secondo con una forza inimmaginabile, creando tutta la materia che ci sta componendo ora. Osservandole mi pare che si muovano, mentre in realtà sono ingannato dal loro costante tremolio e dal freddo che sento, il quale altera un po’ le mie percezioni. Il mistero che racchiudono queste stelle così infinitamente lontane ed immense mi fa ancora una volta riflettere e rimango ad osservarle a lungo. Proprio mentre sto desistendo per la troppa immobilità e i dolori al collo, finalmente vedo una stella cadente! È velocissima, percorre circa metà cielo in meno di un secondo, per poi sparire in un lampo, così come è apparsa. Il meteorite si è completamente vaporizzato al contatto con la rovente atmosfera terrestre, lasciandomi un piccolo regalo che mi allieta per qualche secondo la difficile permanenza nella morsa del freddo.
 
Notte gelida
La situazione, in un silenzio completo, potrebbe apparire addirittura invidiabile, ma il freddo inizia a farsi davvero intenso: dopo le due di notte i minuti sembrano ore, ogni tanto controllo l'orologio pensando che sia passato parecchio tempo ormai, quando in realtà le lancette si sono spostate avanti solo di una decina di minuti. La lentezza del passare del tempo ora è davvero scoraggiante. Il freddo diventa sempre più penetrante: è sì estate, ma ci troviamo pur sempre in un paese della Svezia settentrionale, appena sotto il Circolo Polare Artico. Ogni tanto passano delle persone in bicicletta sulla pista apposita proprio davanti alla nostra aiuola, coperti la metà di noi ma per niente sofferenti. Cosa ci facciano in giro per il parco in bici alle due di notte passate, non riesco veramente a spiegarmelo. Forse hanno le percezioni del freddo simili a quelle della piccola statua di bronzo che in mezzo all’erba del parco si regge tranquilla sulle gambe, indifferente a tutto.
 
Sono costretto a camminare avanti e indietro senza sosta, saltellando per non congelarmi i piedi, che stanno già perdendo buona parte della sensibilità. Tiro fino in cima la cerniera lampo della giacca, alitando nel colletto per riscaldarmi la zona delle giugulari. Ottengo come unico risultato quello di infradiciare la giacca di vapore acqueo, senza per questo sentire alcun beneficio. Davide si sveglia dopo aver dormito circa tre quarti d'ora, ormai sono le tre e tocca a me cercare di dormire, anche perchè non ne posso più di stare in piedi. Le poche panchine presenti sono completamente fradice e non posso di certo sedermici. Mi sdraio al suo posto, cercando di dormire il prima possibile per sottrarre i miei sensi a quell'ambiente freddo. Mi accorgo di tremare come una foglia, cerco di sistemarmi in modo da sentire meno freddo, piano piano mi calmo e riesco a prendere sonno, o almeno così pare. Forse ho dormito venti minuti in tutto, ma è una stima ottimistica. Alle tre e mezza mi sveglio, con i sensi ottusi e faticando a capire se mi sia realmente addormentato o no. In questi venti minuti scarsi il freddo si è fatto insopportabile: stare fermi è ora impossibile. Guardo nuovamente il cielo, in corrispondenza della decisa sfumatura rosata all'orizzonte, sperando di vedere il sole comparire. È un inganno: la luce non prelude all'alba, rimane sempre beffardamente uguale e solo accennata, senza riscaldare minimamente l'atmosfera. Prendiamo insieme a vagare senza meta, cercando di riscaldarci con ben pochi risultati. Il tempo si è enormemente dilatato e passa con una lentezza ancora più insostenibile di prima. Darei qualsiasi cosa per poter entrare in un ambiente riscaldato. Ci aggiriamo per le strade della città, cercando qualche locale aperto dove poterci rifugiare, ma non c'è niente di niente. Tutti i negozi sono perfettamente chiusi dai loro lucchetti, alcuni hanno le luci interne di guardia ancora accese, altri sono completamente bui. Sulle mura di alcune case ci sono dei bocchettoni a muro, che sputano fuori aria forse calda: proviamo a scaldarci col getto d’aria, che però è fredda e non ci è di nessun aiuto. L'unico posto aperto che incontriamo è un hotel, nel quale però è meglio non provare ad entrare, ci caccerebbero probabilmente subito scambiandoci per vagabondi o ubriachi. E anche entrando, cosa avremmo potuto fare? Pagare profumatamente una camera per una notte, solo per stare lì tre ore? Decisamente è meglio rinunciare, anche perchè l'uomo con la camicia bianca che sta dietro il bancone sembra guardarci molto sospettosamente. Dobbiamo cavarcela da soli fino alle sei e mezza. I sei o sette strati di vestiti che portiamo addosso sembrano non riscaldarci affatto, è quasi come non averli: in questo momento la giacca piumino che ho lasciato a casa mi farebbe molto comodo. I minuti però passano, lentamente ma passano: noi non ce ne accorgiamo, ma piano piano arrivano le quattro, poi le quattro e un quarto, poi le quattro e tre quarti, fino ai primi tenui accenni di un'alba, che qui avviene molto presto. Dopo ore e ore passate così, intorno alle cinque la prima luminosità del sole ci investe con i suoi benefici raggi. Ci sembra di rinascere. Non ho mai amato l'amico astro come ora!
Dopo la prima alba, mentre il sole sale lentissimamente nel cielo, ricominciamo a scaldarci efficacemente. Il sangue riprende a circolare nelle arterie periferiche con decrescente difficoltà, la mente si risveglia dall'ottundimento. Piano piano i nostri corpi tornano in temperatura, immobili di fronte alla luce per assorbire tutto il calore possibile, spostandoci solo per essere investiti meglio dai raggi quando salendo incontrano delle fronde di alberi vicini che li attenuano un po’. Non serve più la camminata forzata per non fare la fine dello stoccafisso che giace quasi intonso nella tasca inferiore del mio zainetto, chiuso con lo scotch. Dopo non molto però delle perfide nuvole nerastre, come mandate da un diavoletto dispettoso, oscurano completamente il sole, riportandoci in un attimo al gelo: pochissimi secondi e ricominciamo ad avere freddo esattamente come prima. Ritorniamo quindi a camminare per le vie della cittadina, maledicendo le nubi. Quando vediamo i vetri delle automobili parcheggiate lungo la strada che sono completamente coperti di ghiaccio, capiamo che stanotte deve aver fatto proprio freddo! Con una lentezza esasperante arrivano le sei di mattina: ancora solo una mezz’ora e potremo finalmente entrare nella stazione, per rimetterci in sesto e successivamente prendere il nostro autobus che arriverà dopo altre due ore. Il sole improvvisamente rifà capolino, illuminando un tratto di strada del piazzale dei bus, verso il quale ci spostiamo immediatamente. Ancora una volta ringraziamo in silenzio la nostra stella. I minuti passano ora un po’ più in fretta, finchè finalmente una donna, coi capelli raccolti e vestita solo di una giacchetta leggera, si avvicina ad un entrata secondaria del negozietto di dolciumi, entrando per non uscirne più. Deve per forza essere la commessa che prepara il negozio per aprirlo: enorme il sollievo quando, dopo aver armeggiato un po’ all'interno e acceso qualche luce in più, la vediamo uscire dalla porta d'ingresso per sistemare i quotidiani nuovi sui supporti, muovendosi in fretta per non stare troppo fuori al freddo che noi stiamo subendo da ore. Vorrei entrare immediatamente, ma è meglio aspettare ancora qualche minuto finchè non avrà finito di sistemare il negozio, come mi fa notare il mio compagno. Aspettare sessanta secondi in più ormai non fa molta differenza. Appena possiamo spingiamo finalmente quella porta ed entriamo anche noi, primi intirizziti clienti della giornata, con lo stomaco vuoto da troppe ore ed ormai anch’esso in ribellione.
Ci dirigiamo immediatamente verso la macchinetta del caffè self – service, proprio davanti a noi: due cappuccini bollenti col croissant di contorno vengono immediatamente pagati con la carta di credito fortunatamente accettata, e consumati avidamente. Una colazione banale per qualcuno che si è svegliato nel suo letto al caldo, ma per noi la più soddisfacente mai mangiata! Il liquido caldissimo scende giù nello stomaco bruciando piacevolmente al suo passaggio nella gola e nell'esofago, rimettendoci in sesto poco alla volta, mentre l'indaffarata ma gentile commessa continua a sistemare il negozio, indifferente alle nostre vicende. Di sicuro non ha la minima idea della notte che abbiamo appena passato. Ma non ha nemmeno idea di quanto la stiamo benedicendo e ringraziando per averci aperto quella porta, nonostante sia solamente il suo dovere. Attingiamo dei biscotti dallo zaino, come supplemento "fai da te" alla colazione comprata per riempire il più possibile i nostri stomaci in sommossa. Dopodichè ci sediamo su quelle panche che abbiamo visto per tutta la notte da dietro i vetri, finalmente a noi accessibili. Stravaccati sul legno rosso, nel caldo ambiente della piccola stazione, il gelo è ormai un ricordo lontano.
 
Malessere
Mi sto quasi addormentando sulla strana panca su cui mi sono sdraiato per cercare di recuperare un po’ di sonno arretrato, sono in dormiveglia profondissimo: se mi dicessero qualcosa sentirei le parole ma probabilmente non intenderei niente. È quello stato di trance in cui i pensieri e le immagini mentali si fondono con la realtà, in cui ti trovi ad immaginare ed abbinare cose e situazioni assurde tra loro, senza alcuna logica. Non è piacevole, preferirei un buon sonno invece che questo stato di ottundimento che non dà riposo. Ci pensa però Davide a riscuotermi, quando è il momento di prendere l'autobus: alle otto e venti passa finalmente questo mezzo che ci porterà ad Haparanda, al limite del confine svedese, per poi entrare in Finlandia dall'adiacente cittadina dal buffo nome di Tornio. Di malavoglia abbandono il mio giaciglio ed usciamo nuovamente alla fredda aria di Luleå.
Fuori non fa certo caldo, ma la temperatura è decisamente più sopportabile di quella della notte che ormai ha definitivamente finito di aggredirci. Il bus a due piani arriva a prenderci, tardando però a posizionarsi correttamente nella sua fermata: in questo momento odio profondamente l'autista che se la sta prendendo comoda, poichè il mio intestino sta malissimo dopo tutto il freddo che ho preso e non riesco più a trattenermi, gli spasmi non mi danno tregua. Prego con tutte le mie forze che su quel bus ci sia un bagno, eventualità molto probabile essendo un mezzo turistico decisamente grande. Il biglietto interrail ci fa salire gratis per cui risparmio un po’ di tempo utile per raggiungere il gabinetto, che scopro subito esserci. Sistemo frettolosamente le mie cose sul sedile e ci vado immediatamente, trovandolo fortunatamente libero. Se il bus non fosse munito di servizi, non so veramente come farei! Nelle due ore di strada che ci separano da Tornio visito il capiente stanzino ben cinque volte, battendo quasi sempre la testa contro le bassissime porte che separano uno scompartimento dall'altro, per la troppa fretta di raggiungerlo. Non è solo il mio intestino a soffrire: non mi sento per niente bene in generale, mi sale un po’ di febbricola e ho i brividi, sento caldo e vorrei solamente essere in un qualsiasi letto a dormire. Invece mi tocca cambiare due bus e poi prendere immediatamente un treno che arriverà a destinazione solo in tarda serata. Non avendo vie d'uscita cerco di riprendermi il più possibile, non posso permettermi il lusso di stare male. Il mio impegno ha successo: evitando di addormentarmi e tenendomi sveglio mentalmente, all'arrivo ad Haparanda sto quasi bene. Anche questa volta ho vinto io contro il freddo e le piccole avversità del cammino.
 
Finlandia
Qui c'è da fare un cambio: dobbiamo scendere dall'autobus ed attraversare a piedi la cittadina di Tornio, e con essa anche il confine tra i due stati, prima di proseguire il viaggio con un altro autobus diretto a Kemi. L'autista del bus da noi interpellato ci indica vagamente la direzione da seguire, e subito cogliamo l'occasione di accodarci ad un gruppo di persone munite di zaino e biglietto interrail che sembrano sapere esattamente dove stiano andando. Marciamo con passo spedito verso questo piccolo paese di frontiera, che possiamo già vedere chiaramente dalla nostra posizione iniziale. Per fortuna ogni accenno di disturbo organico è appena cessato, e più passa il tempo più recupero forze e salute. Sono nuovamente contento di essere in marcia e soprattutto di stare per entrare in Finlandia. Il confine tra le due nazioni ci è stato descritto come un ponte in mezzo al quale passa esattamente la linea divisoria, e ci aspettiamo una degna e trionfia segnalazione. Niente di tutto questo: entriamo a Tornio senza nemmeno accorgercene. I nostri euro tanto a lungo conservati intatti nella parte più remota del portafogli ora finalmente hanno acquistato valore, il ponte è un’anonima ed insignificante striscia di pietra senza uno straccio di indicazione. Non abbiamo tempo di rimanere delusi, il bus per Kemi parte tra pochi minuti e dobbiamo sbrigarci a prenderlo. Lo raggiungiamo all'ultimo secondo: un altro colpo di fortuna sfacciata. Oltretutto anche questo viaggio è gratis con l'interrail, sembra che le cose abbiano ripreso a girare per il verso giusto.
 
Vediamo subito persone di fattura diversa da come eravamo abituati a vedere solo qualche ora prima: i finlandesi, così bianchi di pelle e platinati di capelli, sono davvero inconfondibili con gli altri nordici. Anche la lingua finlandese, quasi per nulla influenzata dalla cultura anglosassone, è assolutamente incomprensibile, al contrario del norvegese o dello svedese che sono molto più abbordabili per chi conosce l'inglese. L'autista dà il resto dei soldi ai pochi passeggeri saliti subito dopo di noi, tramite una macchinetta ingegnosa: basta schiacciare dei pulsanti, uno abbinato ad ogni calibro di moneta, tante volte quante monete se ne vogliono prelevare, trovandosele direttamente in mano e del giusto valore. Un altro esempio delle piccole migliorie che qui si vedono così spesso e che aiutano a semplificare la vita. Il viaggio nel percorso misto tra urbano ed extraurbano dura solo un'ora, ma non mancano le sorprese: ci accorgiamo subito che la guida su strada in Finlandia segue regole diverse. In pratica non esistono gli incroci con lo stop, chi viene da destra ha sempre e comunque la precedenza anche se proviene da una strada secondaria. Per chi si avventura in macchina in questa nazione e non è preparato, gli incidenti sono assicurati. Fortunatamente, viaggiando in treno non si hanno problemi…le rotaie sono molto meno interpretabili rispetto alle strisce d’asfalto.
 
Kemi è solo una breve tappa di passaggio per approdare a Kuopio, la nostra vera destinazione situata nel cuore della Finlandia. Tutto ciò che facciamo qui è camminare per centinaia e centinaia di metri prima di trovare un supermercato in cui rifornirci di cibarie. Ci sono negozi di ogni tipo, ma stranamente gli alimentari sembrano scarseggiare: ogni negozio che ci pare possa vendere cibarie in realtà vende vernici, mobili, ferramenta, vestiti, tutto meno che il cibo. Finalmente trovato il grosso alimentari e riforniti di viveri a prezzi ridicoli grazie ai consistenti sconti offerti dal supermercato tedesco, prendiamo il nostro treno per Kuopio. Anche questo viaggio è completamente gratuito per noi che mostriamo questo biglietto stampigliato con caratteri antichi come si trovavano nelle ormai dismesse macchine da scrivere, e finalmente ci possiamo rilassare avendo davanti una sferragliata di diverse ore, senza soste nè cambi.
 
Foreste
Il paesaggio finlandese è quanto di più monotono mi sia capitato di vedere in vita mia: foreste di abeti rossi e betulle, e null'altro. Così sterminate da parere infinite, per ore e ore mai un cambiamento, se non per qualche raro lago (nella regione centro-settentrionale non se ne trovano poi così tanti, sono quasi tutti concentrati a sud-est). Il legname di questi alberi è adatto a produrre fogli di carta e a costruire mobili e abitazioni, ma la coltura intensiva a cui è soggetto rappresenta un pericolo per l'ambiente: coltivare sempre e solo una o due specie di alberi porta a sconvolgimenti anche gravi dell'ecosistema, che ha bisogno di biodiversità spiccata per garantirsi la sopravvivenza. Le industrie cartiere finlandesi inquinano i fiumi e i quasi duecentomila laghi della nazione, rendendoli tra i più sporchi dell'intera Europa nonostante la loro apparente estrema purezza. Forniscono pur sempre lavoro ad un enorme parte della popolazione finlandese, e non potrebbe essere altrimenti con i tre quarti del territorio coperti da boschi, rendendo però la situazione un dilemma: come fare per continuare una produzione soddisfacente che sostenti adeguatamente i circa cinque milioni di abitanti, ma che sia contemporaneamente sostenibile per l'ambiente? Noi della questione ambientale vediamo solo il risvolto paesaggistico: una noia mortale, nonostante tutto quel verde sia piacevole da osservare rispetto ad anonime colate di cemento e sabbia. Una noia strana, a metà tra l’ammirato e l’apatico, per questo paesaggio che potrebbe far impazzire, se visto per giorni e giorni consecutivi sempre uguale.
 
Solo rarissimamente le foreste si aprono per lasciare spazio a qualche pianura, o a quattro timorose case raggruppate assieme come per non essere inghiottite nel nulla se osassero separarsi, o a un industria di legname o una cartiera. Ci chiediamo seriamente cosa succederebbe se il treno si guastasse in mezzo a queste sconfinate distese di niente, ma preferiamo non pensarci una volta immaginato quanto dovremmo aspettare prima che qualcuno ci soccorra, nonostante immaginiamo che i soccorsi finlandesi siano efficienti e preparati a queste eventualità. Sui nostri sedili foderati di blu caschiamo dal sonno e dalla noia, stanchi morti. Tutto ciò che desideriamo ora è un letto vero su cui stravaccarsi senza più muoversi per una giornata intera.
 
Ultimo sforzo
In qualche modo passa anche questo estenuante viaggio e giungiamo alla stazione di Kuopio. È di nuovo il momento di drizzare le antenne e darsi da fare per trovare l'ostello, che pare essere situato in cima ad una collina, raggiungibile solo a piedi non essendoci mezzi pubblici che servono la zona. Al primo tentativo sbagliamo strada, imprecando, al secondo l'azzecchiamo ma abbiamo davanti due chilometri di salita, di cui uno e mezzo decisamente ripido che sembra non finire mai. Per di più, una densa nebbia rende impossibile capire quanta strada rimanga effettivamente da percorrere. Gli zaini pesanti addosso ci costringono a sudare copiosamente e a fermarci spesso per riportare i battiti del nostro cuore alla normalità e lasciar smaltire l'acido lattico agli affaticati muscoli delle gambe. Ogni volta che pensiamo che la curva che abbiamo davanti sia l'ultima, scopriamo che c'è ancora un po’ di strada da fare, è una tortura vista tutta la stanchezza che abbiamo addosso. Non pensavo davvero che due chilometri potessero essere così lunghi! Oltretutto la reception ha un orario di chiusura, dobbiamo muoverci o rischiamo di rimanere chiusi fuori.
 
Pezzati di sudore da capo a piedi, con la gola riarsa, finalmente arriviamo in cima, giusto mezz’ora prima del tempo limite. Finalmente possiamo avere le nostre chiavi e riposarci, sempre che prima si riesca ad aprire quella dannata porta della camera: la chiave si incastra nella toppa, non gira. Ormai siamo a un passo dalla salvezza ma dobbiamo tornare indietro a chiedere un passepartout per entrare, idea che ci riempie di indolenza ma sembra che non ci sia alternativa, la porta non ne vuole proprio sapere di aprirsi. Con un gesto di rabbia giro la chiave più violentemente, giusto un attimo prima di iniziare ad andarcene, e come per magia la serratura finalmente scatta e la porta si apre, mostrandoci una bella sorpresa: la camera è doppia! Nessuno che ci possa dare fastidio, il bagno in camera con doccia incorporata, siamo logicamente felici. Una bella lavata è proprio quello che ci vuole per far scivolare via la stanchezza e il sudore che ormai non sopportiamo più. Dopo la doccia ci sentiamo meravigliosamente bene, mangiamo con notevole appetito le vivande procurateci al supermercato, facendo il bis più volte (con memorabile scena di apertura della scatoletta di tonno priva di apertura a strappo, usando prima coltello, poi coltellino svizzero e infine forbicine per le unghie finalmente con successo). Dopo non molto ci addormentiamo, recuperando le forze perdute in previsione della giornata intensa che sarebbe seguita: avremmo provato la famosa Jätkänkämppä, la sauna tradizionale finlandese più grande del mondo. Potremo usufruirne grazie all'ennesima fortunata coincidenza: è aperta solo due giorni alla settimana, martedì e venerdì, e casualmente domani sarà proprio martedì. Questione di destino che, nonostante tutto quello che si può dire e non dire, esiste eccome.
Torre panoramica
Un’ottima dormita ci rigenera nel corpo e nello spirito, siamo di nuovo pronti a tutto. La colazione a buffet è inclusa nel prezzo, da cui ci alziamo di buon ora per approfittarne prima che il grosso venga saccheggiato impunemente dagli altri affamati clienti. C'è veramente di tutto: approfittiamo in modo indegno, mangiando da scoppiare. Finalmente una colazione decente e sostanziosa, dopo giorni e giorni a mangiare schifezze dal molto approssimativo valore nutrizionale. Toast con la marmellata di frutti di bosco, croissant, corn flakes immersi nello yogurt, caffelatte e succo di frutta, insomma ogni ben di Dio. Usciamo con la pancia piena e il sorriso stampato sul volto, prepariamo velocemente i nostri pratici zainetti per uscire, e saliamo per goderci una breve panoramica sulla grossa torre a poche decine di metri dall'ostello. La sera prima nemmeno l’abbiamo vista, tanto era nascosta dalla fitta nebbia. La vista da lassù è ottima: c'è molto vento da cui non rimaniamo a lungo, ma possiamo ammirare finalmente i famosi laghi finlandesi visti nell'insieme. Sono tutti vicini gli uni agli altri con qualche sperduta conifera che cresce negli isolotti al centro di alcuni di essi, un paesaggio assolutamente peculiare. Nella zona di Kuopio i laghi sono estremamente numerosi: molti hanno descritto la vista che si ha dalla torre su cui noi ora ci troviamo come la migliore possibile per avere un quadro d'insieme dell’intera nazione. Foreste e laghi, d’inverno completamente trasformati in neve e ghiaccio, oltre alle onnipresenti saune, addirittura una ogni otto abitanti. Questa è la Finlandia.
 
Tutto esaurito
Discesi dalla torre, torniamo qualche minuto in ostello per organizzarci bene e soprattutto prenotare gli ostelli di Helsinki e Stoccolma, le nostre ultime due tappe. E' una parola: ci siamo svegliati decisamente tardi a prenotare, causa anche gli ultimi giorni decisamente stressanti. La nostra Lonely Planet finlandese ci dà una scelta di cinque ostelli nel centro di Helsinki: ci permettiamo perfino di valutare pregi e difetti di ognuno, stilando una lista di quali provare per primi e quali per ultimi, mettendo in cima quelli con la colazione inclusa e in fondo quelli più lontani e con meno agevolazioni. Telefoniamo al primo ostello: è pieno. Ripieghiamo sul secondo, che è pieno anche lui. Il terzo e il quarto, che fino a poco prima erano le scelte di ripiego se proprio non ci fosse stato alternativa, diventano le nostre ultime speranze, ma anche loro sono inesorabilmente "fully booked".
Capiamo che non possiamo permetterci molta scelta: mano a mano che chiamiamo anche quelli minori, segnati sull’utile carta ostelli donataci da Pavel, ci sentiamo rispondere che sono tutti pieni anche loro per i prossimi due giorni. Ci riduciamo a sperare in un qualsiasi buco che abbia una branda di qualche genere e quattro mura attorno: ne chiamiamo almeno una ventina, sempre senza successo. Davide è ormai nauseato dalla solita frase che è costretto a ripetere ossessivamente ad ogni chiamata "Hi, we're two guys and we're looking for two beds for two nights...". Spendiamo settanta euro di telefonate in poche decine di minuti. Ormai disperati, tutto quello che otteniamo è una sistemazione a Stoccolma un po’ disagevole per il primo giorno, meno per i successivi due, mentre per Helsinki rimane tutto in sospeso. Esaurita la lista, non ci resta che chiamare il centro di assistenza per il turismo a Helsinki. Ci vogliono decine di tentativi per azzeccare il numero giusto: una volta manca lo zero, una volta manca il prefisso, una volta ci vogliono due zeri e non uno, un’altra volta ancora gli operatori non parlano inglese, o addirittura componendo il prefisso finlandese ci risponde gente che parla in italiano chiedendo con fare seccato chi siamo e cosa vogliamo. Composto finalmente il numero giusto, apprendiamo che gli ostelli sono tutti prenotati e che dovremo soggiornare in albergo, prontamente prenotato ad un prezzo equo. Anche questa è andata.
 
Kuopio
Rinfrancati dall'aver risolto il problema, è giunto il momento di visitare finalmente il centro di Kuopio, in attesa di raggiungere la sauna che aprirà solo alle cinque del pomeriggio. La cittadina è piena di vita: la piazza del mercato centrale è un fermento di bancarelle che vendono di tutto, dai ribes e lamponi alle magliette con la bandiera finlandese, fino alle coloratissime matrioske cinesi. Il mercato coperto, Kauppahalli, è ancora più ricco di prodotti, specialmente culinari: sono irresistibilmente attratto da una barretta di cioccolato al mirtillo, mangiata subito dopo in un impeto di curiosità, semplicemente squisita! Ovunque abbondano i negozi e i distributori automatici di caffè, la bevanda preferita dei finlandesi: con un consumo medio di quattordici chilogrammi annuali, pari a circa nove tazze giornaliere, si collocano come i primi estimatori al mondo di questa bevanda. Divertenti le tradizioni nordiche quando si viene invitati a casa di qualcuno in Finlandia: il caffè va rifiutato per tre volte, accettando poi di berne solamente mezza tazza alla quarta offerta, e finendo poi con il berne quantità spropositate.
 
Dopo il mercato cerchiamo un posto dove riposarci e troviamo un parco che contiene al suo interno un inquietante cimitero militare, ognuno con le lastre di pietra levigata incise con nomi e cognomi degli sventurati. Ognuna ha il suo mazzo di vistosi fiori rossi, a perenne ricordo di una morte assurda ed insensata. Un cimitero militare è la lampante dimostrazione di una stupidità immensa che ogni volta che mi viene messa davanti stento a comprendere e mi viene solo da rigettare, ma che purtroppo è ineliminabile, fa parte di noi. Quando siamo stanchi di osservare il triste monumento e di farci assalire dalle vespe che hanno ricominciato a tormentarci, stavolta coadiuvate da dei fastidiosissimi moschini che in Finlandia abbondano d'estate, prendiamo l'autobus per la zona dove si trova la nostra tanto declamata sauna.
 
Jätkänkämppä
L'autobus ci abbandona davanti ad un sentiero sterrato che si inoltra nel bosco proprio di fianco ad un lago: lo imbocchiamo senza remore, curiosi di scoprire le dimensioni della sauna “più grande del mondo”. Per me è una cosa completamente nuova, sono un “esordiente totale”, e farla per la prima volta proprio qui è un'idea elettrizzante. Le temperature che si trovano in questi forni di calore secco variano dagli ottanta fino a quasi cento gradi. Questa infatti è una Savu-sauna, letteralmente sauna di fumo: la camera rovente viene scaldata ventiquattro ore prima dell'uso per essere alla temperatura giusta quando viene aperta al pubblico, e il calore è prodotto dalla combustione della legna e non dal vapore acqueo che si forma gettando acqua sulle pietre roventi, come succede nelle saune tradizionali. L’intera costruzione è situata immediatamente adiacente al lago, permettendo dei veloci tuffi ai temerari che volessero provarli. I finlandesi questi tuffi li fanno anche in inverno, rompendo il ghiaccio che si forma sulla superficie del lago, per non perdersi nemmeno una possibilità di dare un po’ di salutare shock termico al loro corpo: la sauna è l'elemento caratterizzante la loro cultura, usata per curare qualsiasi malattia o malessere. Dal banale raffreddore fino alle patologie più serie, nulla è escluso. Contrariamente a ciò che si può pensare, la sauna non è usata per tentare approcci con l'altro sesso, ma solo per meditare un po’ e depurarsi il fisico e l'anima.
 
Dopo una serie di bivi in mezzo alle foreste popolate da libellule e altri insetti enormi, appare questa costruzione di legno, delle dimensioni di un cottage estivo medio. C’è un ristorante tipico dall'altro lato che serve cibo solo in corrispondenza dell'apertura della sauna, e la capanna dei taglialegna che periodicamente danno una dimostrazione della loro abilità, sfasciando tronchi a colpi d'ascia sicuri e precisi come sanno fare i popoli che vivono di legname dai loro albori. L'atmosfera lacustre è peculiare: i giunchi che spuntano ovunque dall'acqua ondeggiano leggermente con il vento, mentre gli alberi lasciano intravedere solo una piccola porzione di lago, in realtà piuttosto vasto, come si può apprezzare bene una volta sulla riva. Qualche tronco è immerso per metà nell’acqua, abbandonato a marcire: forse non è legno buono da lavorare. Dei rimasugli di legname stanno bruciando proprio di fronte all'acqua, producendo dei gran sbuffi di fumo che il vento spinge nella nostra direzione, facendoci tossire a più non posso. Siamo costretti a spostarci e a ripararci dietro gli edifici finchè il fuoco non sarà spento completamente. Le passerelle di legname in mezzo ai boschetti portano a dei piccoli rifugi e capannine in cui certamente non si può abitare, ma che servono solo per i bivacchi, o almeno così era in passato.
 
La sauna aprirà di lì a un paio d'ore, lasciandoci il tempo di mangiare un panino con della succulenta carne di alce in scatola comprata al supermercato, e di metabolizzare il tutto sufficientemente per poter entrare senza rischio di pericolosi blocchi digestivi. Mentre stiamo aspettando arriva un gruppo numeroso di italiani, tutti muniti di asciugamano, che entrano immediatamente discorrendo sui benefici delle saune e sulle differenze tra quelle secche e umide. Dopo aver deciso arbitrariamente che la nostra digestione è durata a sufficienza, entriamo anche noi prima che la sauna si riempia: la capacità teorica è di sessanta posti, che possono arrivare anche a centotrenta se piena fino a scoppiare, ma è meglio non rischiare: la gente inizia ad arrivare a frotte. Il gentilissimo e sorridente gestore dagli enormi occhi azzurri ci ricorda che possiamo usare la student card, casomai ne avessimo una, per ottenere uno sconto sul biglietto: un’altra dimostrazione di onestà, sarebbe potuto stare tranquillamente zitto e incassare di più. Depositati gli zainetti e ogni cosa di valore nel ripostiglio, affidandoli direttamente alle mani di lui senza timore di frodi, entriamo nello spogliatoio. Diversi uomini nudi o quasi si stanno asciugando e rivestendo senza fretta. Inizialmente credo che quella stanza sia già la sauna, sentendo un gran calore umidiccio, ma capisco subito che è solo lo spogliatoio. Rimaniamo in costume, anche se i finlandesi non ne vedono di buon occhio l'utilizzo perchè il calore intenso potrebbe degradarlo liberando molecole tossiche, oltre a impedire ai tessuti sottostanti di traspirare normalmente. Per sicurezza chiediamo espressamente al gestore se sia consentito usarlo, indicandoglielo a gesti data la nostra ignoranza nella traduzione della parola "costume" in inglese, e la risposta è affermativa.
 
Una volta pronti e muniti di due asciugamani, entriamo in un locale un po’ più caldo, con delle docce a muro. Nemmeno quella è la sauna! Vedo una porta sul lato aprirsi e qualcuno entrare coperto solo da un asciugamano legato attorno alla vita, allorchè capisco che la camera del calore è lì dietro. Non ho idea di cosa mi stia aspettando in quella fornace, da cui entro con decisione. Non appena mi rendo conto della temperatura interna, rimango scioccato. L'ambiente è incandescente, quasi insopportabile: il muro di calore mi investe in pieno e sento quasi subito i battiti del mio cuore accelerare convulsamente. Mi siedo, camminando lentamente per non peggiorare le cose, su una delle tre file di panche di legno. Evito accuratamente quelle della fila più in alto, ricordandomi tutt'a un tratto che il calore tende a salire verso l'alto. Dopo nemmeno una ventina di secondi sento già la pelle, che fino ad un attimo prima era asciutta, riempirsi di sudore ovunque: nei capelli, tra le dita, sulla pancia, sui polpacci, una sudata generalizzata. È una sensazione mai provata prima, credo di sentirmi male ma è solo l'emozione, in men che non si dica stiamo tutti e due letteralmente nuotando nel nostro sudore. Respiriamo mano a mano sempre più normalmente grazie alla natura secca di quel calore che non opprime i polmoni, ancora un po’ frastornati da questo ambiente così ostile ma tutto sommato anche piacevole. I (pochi) finlandesi ivi presenti, ligi alla tradizione, prelevano l'acqua bollente da delle ciotole metalliche, usando dei mestoli sparsi per le panche anch'esse roventi, e la lanciano sul braciere producendo getti di vapore sfrigolante che vanno ad aumentare ancora di più la temperatura. Le dimensioni della stanza quadrata, che è realmente la più grande del mondo, non superano i cinque metri di lato, per due metri abbondanti di altezza: alla faccia della grandezza! Ma non c’è trucco: le classiche saune finlandesi che si trovano nelle case sono grandi più o meno come un’utilitaria.
 
Tuffo nel lago
Presto la temperatura e le condizioni della nostra pelle ormai completamente impiastricciata si fanno insopportabili, sentiamo il bisogno di uscire da quella fornace che ci sta consumando. Traballando sulle gambe usciamo lentamente dalla camera infuocata, e appena fuori dalla porta il sollievo è quasi immediato. Non osiamo fare subito il tuffo nel lago preferendo come prima volta una "semplice" doccia gelata. In qualsiasi altro momento una cascata d'acqua addosso a quella temperatura ci bloccherebbe il respiro istantaneamente, ma adesso è quanto di più rigenerante ci possa essere: il getto d’acqua, freddo che più freddo non si può, sulla pelle caldissima sembra quasi tiepido. Dopo un paio di minuti di doccia, gradualmente spostata su temperature più canoniche, decidiamo di rientrare: è assolutamente da rifare! Il ritorno nell'altoforno è meno traumatico adesso che la nostra pelle è più umida, sarà l'acqua che ci è rimasta addosso ad evaporare per prima, tenendoci un po’ più freschi. Rimaniamo dentro qualche minuto di più, non più con la lingua paralizzata dallo shock e dall'arsura: stavolta conversiamo quasi normalmente anche se non c'è molto da dire, preferiamo concentrarci sulle sensazioni fisiche. Il prolungamento del tempo passato lì dentro ha ora una finalità precisa: tra poco proveremo il tuffo nel lago, dobbiamo accumulare molto più calore. Usciamo dopo cinque minuti circa, sulla passerella di legno all'aperto. Avvertendo a malapena il vento sferzante, camminiamo il più velocemente possibile verso il molo di legno. Davide si tuffa a peso morto, con una gran spanciata: il tempo di rendersi conto della temperatura del lago e subito strabuzza gli occhi, terrorizzato, uscendo il più velocemente possibile. L’acqua deve essere proprio fredda!
 
Non sapendo nuotare io mi devo immergere gradualmente, scendendo i gradini al limite del ponticello. Arrivo con l’acqua alla gola, è un altro shock! L’acqua è decisamente fredda anche se infinitamente meno ora che ho assorbito tutto quel calore. Di certo quando non ero ancora entrato in sauna mai e poi mai mi sarei buttato nel lago così! Uscendo dall'acqua non abbiamo nemmeno troppo freddo, ci copriamo solamente lo stomaco con l'asciugamano per evitare una congestione e subito torniamo dentro, per rifarlo ancora quattro volte tra caldo e freddo! Le ultime due volte Davide si tuffa in acqua correndo a più non posso, imprecando a denti non troppo stretti contro chi involontariamente intralcia il percorso fino al ponticello. Riesce comunque a buttarsi abbastanza velocemente, per amplificare ancora di più l’effetto shock dell’acqua fredda. È come una droga, invita a rifarla ancora e ancora: piacevolmente rilassante, estremamente salutare. Dopo un certo tempo avvertiamo un po’ di stanchezza da tutto quello strapazzamento, i polpastrelli delle dita si sono raggrinziti tantissimo, completamente macerati nell'acqua e nel sudore. Da cui decidiamo di finirla lì e di farci l'ultima doccia per rimetterci in sesto prima di andarcene.
 
Relax
Dieci minuti dopo siamo di nuovo vestiti e privi di qualsiasi stanchezza o malessere fisico residuo: i benefici della sauna sono davvero consistenti, ci si sente proprio un'altra persona, come nuovi. Per coronare al meglio la giornata, ci concediamo un bel boccale di birra contornata da degli ottimi cracker sulle panchine fuori dal cottage. Guardando la gente in costume che si tuffa nel lago, senza essere più parte di loro, ci torna in mente quello che pensavamo fino ad un’ora prima: sono pazzi ad andare in giro nudi con questo freddo! Ci improvvisiamo poi guide turistiche quando una famiglia italiana viene a chiederci informazioni su come funzioni la sauna, e siamo molto contenti di poterli aiutare, questo shock termico ci ha messo particolarmente di buon umore. Siamo pienamente soddisfatti: anche questa è andata, e siamo sopravvissuti ancora una volta. Lasciamo questa scena dopo aver assistito alla divertente scena di un pescatore che arriva svuotando rumorosamente degli interi torrenti d'acqua dai suoi stivali, tra le risate generali. È tempo di risalire sul bus e tornare al nostro ostello, domani partiremo ancora da qui, alla volta della capitale di questa affascinante regione.
 
Verso Helsinki
Sono io il primo ad alzarsi dal letto, alle sei e tre quarti, due minuti prima che suoni la sveglia all'ora programmata. Ormai ho sviluppato una sorta di orologio biologico tarato sulle frequenze del viaggio, che mi fa spesso ridestare all'ora giusta senza quasi bisogno di puntare alcuna sveglia. Una velocissima colazione ancora una volta gratuita, poi riprendiamo sulle spalle i pesanti zaini, sempre più carichi di biglietti timbrati e scontrini dei negozi tutti accuratamente conservati per non perdere nemmeno un pezzettino di ricordi, e scendiamo per l'ultima volta da quella collina. Il peso degli zaini ci tira in giù molto velocemente e siamo costretti spesso a rallentare volontariamente per non sfracellarci gli alluci dentro le scarpe. Io sono fermamente intenzionato a fare l'autostop se solo passa un'automobile: non è un metodo perfettamente sicuro, ma avendolo già fatto una volta in vita mia quando ero poco più che bambino ed essendone uscito perfettamente indenne, non avrei problemi a rifarlo. Non passa però anima viva su una macchina, se non in senso contrario al nostro, e la strada ce la facciamo tutta a piedi anche stavolta. Il treno è munito di una carrozza a due piani in cui abbiamo prenotato i nostri posti: scopriamo solo una volta a bordo che ci toccano i posti adiacenti all'area attrezzata per i bambini, dai piccoli ai piccolissimi. Risultato: cinque ore di viaggio tra urla, risatine, pianti inconsolabili, versi e sbrodolii, madri disperate che non sanno più come far stare zitti i loro pargoli. Il resto del treno è pieno zeppo di altri posti vuoti per sederci che non possiamo usare, ma sopportiamo tutto senza lamentarci. Non possiamo trovare molta distrazione nel paesaggio: anche andando al sud le cose non migliorano di molto, è sempre tutto estremamente lineare ed uniforme. C’è solo qualche lago in più, che osserviamo dal nostro finestrino con decrescente interesse.
 
Non scendiamo direttamente alla stazione centrale di Helsinki, bensì alla fermata prima: il nostro albergo, un po’ fuori zona, si trova proprio in corrispondenza della penultima sosta. Nella stazione in cui arriviamo ci sono indicazioni per ogni luogo meno che per dove dobbiamo andare noi, i bigliettai non parlano inglese (o almeno così affermano vivacemente) e non ne vogliono sapere di ascoltarci. Non siamo abituati a questo trattamento e rimaniamo un po’ delusi, ma almeno ci rispondono indicando sbrigativamente una direzione col dito quando insistiamo per dirgli almeno il nome dell'albergo dove siamo diretti. Decisamente scortesi, ma non è detto che i nordici debbano per forza essere gente educata e gentile, ogni cesto ha la sua mela marcia. Camminando in quella direzione finiamo in uno strano quartiere, fatto di sopraelevazioni di cemento intervallate da sprazzi di verde, in cui si alternano enormi edifici commerciali e più modeste palazzine residenziali, ed anche una biblioteca per soddisfare la voglia di lettura del popolo con il più alto tasso di libri e quotidiani letti nell'intera Europa. Dopo un po’ di peregrinazioni e di informazioni chieste ai passanti, giungiamo al nostro mastodontico residence, in una zona decisamente periferica.
 
L’albergo delle meraviglie
E' decisamente un’oasi nel deserto rispetto agli ostelli in cui siamo abituati ad alloggiare: lussuoso, pulitissimo, decorato in ogni modo possibile. E dire che è il più economico della zona. Veniamo trattati con gentilezza estrema dalla bionda receptionist, che ci illustra ogni singolo dettaglio di funzionamento dell’hotel. La nostra camera, all'ottavo piano, è stratosferica. Tanto per dare un’idea, è munita di comodità esagerate come lo stirapantaloni (!), un intero servizio di bicchieri, frigobar con ogni genere possibile e immaginabile di superalcolico (ma a prezzi ovviamente esagerati), televisione con il messaggio di benvenuto "Dear Mr Davide" e le istruzioni visualizzate per informarsi sulle funzioni e servizi alberghieri, il ferro e l'asse da stiro, una presa per il modem addirittura allungabile, asciugacapelli, bustine di cappuccino già pronte da miscelare con l’acqua fatta bollire direttamente in camera con la macchinetta apposita, luci che si accendono e si spengono automaticamente inserendo la carta magnetica nella fessura, e tantissimo altro ancora. Il tutto a poco più di quaranta euro a notte. Paragonato agli alberghi italiani, che per la stessa cifra offrono un terzo di tutto ciò, è lo specchio di una nazione veramente ricca ed evoluta, attenta alla qualità dei servizi per i suo cittadini.
 
Helsinki
La capitale della Finlandia è una città famosa per le sue molteplici influenze culturali e la sua variegatezza. Si parlano indifferentemente due lingue ufficiali eppur così dissimili, il finlandese e lo svedese, e si notano chiaramente le influenze russe, data la grande vicinanza col territorio sovietico e la lunga storia di battaglie e collaborazioni che li accomuna. Appena usciti dall'affollata stazione centrale, vediamo subito una città molto animata, mille volte più di Oslo: c’è gente di ogni nazionalità, edifici di ogni tipo di architettura, generalmente non molto elevati. Il sistema di trasporti pubblici e di regolamentazione del traffico è ottimo: Helsinki è tralaltro l'unica città finlandese a fare uso di metropolitane e tram. Dopo una breve sosta ad un fast food la nostra prima tappa è il conosciuto Kauppatori, il mercato del pesce all’aperto: passiamo solo davanti alle sue bancarelle arancione brillante, promettendoci di rivisitarlo in seguito, tirando dritto per vedere subito la famosa chiesa luterana, il cosiddetto Duomo di Helsinki situato in piazza del Senato, accoppiato alla statua di Alessandro II di Russia che si staglia fiero in mezzo alla piazza sul suo cavallo anch'esso di pietra. La chiesa è molto sopraelevata e domina tutta la città, con queste scale interminabili su cui siedono costantemente orde informi di turisti, l'enorme cupola centrale, le pareti bianchissime sia all'esterno che all'interno, così perfettamente levigate e candide da sembrare di ghiaccio. È la prima chiesa totalmente priva di affreschi che vedo. Ha il suo fascino, è veramente imponente. La zona è invasa dai visitatori, italiani in primis, per cui ci spostiamo presto in un'altra area più tranquilla, a vedere una vera meraviglia di architettura e gusto artistico: la Uspenskin Katedraali, chiesa ortodossa dall'inconfondibile stile russo. Ha le murate rossastre e le classicissime cupole d'oro a cipolla, di cui due su un lato appena sostituite che brillano decisamente più delle altre. Magnifica all'esterno e soprattutto all'interno, che riusciamo a vedere non più di un minuto prima che chiudesse. Ammiriamo tutti i quadri che tappezzano la parete, anch'essi riccamente decorati e dorati, e finiamo con uno sguardo fugace rivolto all'altissima cupola, in parte coperta da uno sfarzosissimo lampadario dalle mille candele.
 
Riprendendo a girare per le vie del centro, ci viene l'idea di comprarci qualcosa di alcolico, per festeggiare degnamente almeno una serata con una buona bottiglia: l'idea è subito accolta, ma dobbiamo stare attenti a come fare. Anche in Finlandia gli alcolici non sono ben visti dalla polizia, e si vendono solo in negozi appositi (nonostante ciò non riduca di molto il problema dell’alcolismo anche qui molto sentito). Veniamo a conoscenza di un negozio di alcolici non molto lontano da dove ci troviamo, e lo puntiamo speditamente: l'età necessaria l’abbiamo superata, nessun impedimento. In quel negozio c'è ogni tipo di alcolico esistente al mondo, vini provenienti da ogni angolo del pianeta, Italia inclusa, si arriva perfino all'Australia. Individuo quasi subito una solitaria bottiglia di vermouth rosso a buon mercato, in un angolino di uno scaffale e coperta da un leggerissimo velo di polvere, a testimoniare il tempo che ha passato lì senza che nessuno la prendesse in considerazione. Insisto per comprarla, snobbando il ben più gustoso ma costosissimo Martini che campeggia in bella vista poco più sopra, perfettamente pulito. Alla fine ho la meglio: l’impolverato ma onesto vermouth sarà il nostro festeggiamento della serata, quando torneremo all’ovile.
 
Sotto la pioggia che inizia a cadere leggera arriviamo ad un imponente chiesa tedesca, purtroppo chiusa. E' un vizio dei nordici quello di aprire le chiese solo per pochissime ore al giorno, non riusciamo veramente a capire il perchè. Un po’ scornati proseguiamo arrivando ad un'altra chiesa (sono veramente tante qui!), dedicata a San Giovanni: ricorda un po’ Notre Dame di Parigi per le sue due torri identiche sulla parte frontale, enormemente alte. Anch'essa è di stile luterano, è la chiesa in pietra più grande della Finlandia. Magnifica all'interno e all'esterno, specie nelle vetrate colorate, la mia parte preferita di ogni chiesa: hanno un che di celestiale, che non può fare a meno ogni volta di lasciarmi senza fiato, come quando visitai la Sainte Chapelle, una piccola cappella gotica nel centro di Parigi quasi interamente composta da vetrate coloratissime e celestiali.
 
Dopo questa meraviglia tocca ad un'altra chiesetta luterana dall'altra parte della città, completamente incastonata nella roccia: dopo una lunghissima camminata per raggiungerla, fortunatamente la troviamo ancora aperta. Il sacerdote, con il suo lungo abito talare verde, sta celebrando messa. La roccia forma un cerchio tutto attorno alle panche e all'altare, con l'organo incastrato in un'altura sulla sinistra. Il tetto ramato è sostenuto da dei fitti piloni di acciaio su tutta la circonferenza, con un effetto di contrasto tra l'antico e il moderno davvero sorprendente. Ascoltiamo un po’ il prete finlandese mentre declama i passi del Vangelo nella sua lingua così incomprensibile, per poi ritornare sui nostri passi fino all’albergo.
Il vermouth
Soddisfatti dalla giornata molto produttiva, escogitiamo ogni sistema possibile per rendere la pantofolaia serata divertente: in un lampo di genio, cerchiamo di connettere il lettore Mp3 alla televisione, sperando che siano compatibili, ma non è munita di presa adatta. Così ripieghiamo mettendo gli auricolari a volume massimo e incollandoli con lo scotch agli angoli della televisione, rivolti verso di noi e verso l'alto per sentire il più possibile, cose che solo due malati di mente si possono inventare. Apriamo la bottiglia soddisfatti, vuotandola lentamente bicchierino dopo bicchierino, in allegria. I momenti più divertenti si verificano quando Davide fa una capriola sul letto e io gli intimo di smetterla di fare quei "trabaglioni", parola completamente senza senso, non so assolutamente cosa avessi voluto dire, mi è uscita proprio spontanea. Altro momento da risate assicurate è quando tento di versare altro vermouth nel bicchiere, inclinando sempre di più la bottiglia fino quasi a metterla in verticale, col vino che non ne vuole sapere di uscire, finchè mi accorgo di non aver tolto il tappo. Ci addormentiamo di lì a poco, dopo esserci raccontati vecchie storie di liceo e di vita vissuta, tutte ricordate con grande nostalgia e un velo di tristezza, ma che ancora oggi ci fanno sorridere come allora. Davide si addormenta dopo di me, con la pancia all'aria esposta al freddo, svegliandosi solo verso le quattro causa una vescica tesissima. Si renderà conto solo allora di aver lasciato tutte le luci accese. Io non mi accorgo di nulla dormendo come un sasso fino alla mattina successiva.
 
Helsinki
Un po’ rimbambiti e assonnati, con la schiena indolenzita dai morbidissimi letti d'albergo tanto invitanti quanto dannosi per la colonna vertebrale, ritardiamo la colazione per riprenderci un po’ dagli effetti dell’alcol. Approfittiamo comunque di quanto ci viene offerto dal generoso buffet, logicamente molto più ricco di quello seppur abbondante nell'ultimo ostello a Kuopio: ci sono perfino le uova e il bacon per qualche eventuale inglese in vacanza, cibarie che ovviamente noi stiamo male solo a guardare. Ci accontentiamo di qualche croissant con caffelatte, per poi ripartire alla volta di Helsinki, oggi sarà un'altra dura giornata di turismo culturale. La prima attrazione del giorno è il museo di arte moderna, che a me non ha mai interessato molto ma non possiamo escludere dalla lista: ad Helsinki i posti da visitare non sono poi moltissimi. Dentro non c'è granchè: i soliti panni sporchi stesi e venduti come opere d'arte, forme bizzarre o quadri monocromatici, lattine di colore tremendamente arrugginite ed ammassate tutte assieme a simboleggiare il lavoro dell'artista. La classica frase che viene da pensare quando si assiste a tali opere è "Ma queste potrei farle anch'io, anzi meglio di loro!", e nonostante quello che dicano gli esperti in materia sui significati nascosti che celano, sono convinto che sia la pura e semplice verità. Ma questa è solo una mia considerazione personale: certe opere sono anche affascinanti, a volte inquietanti. Una su tutte il video di un gruppo di bambini, probabilmente in qualche zona dell'Est europeo devastata dalla guerra, che prendono letteralmente a mazzate una vecchia automobile, trasformata in giocattolo da sfascio in mezzo alla strada. I genitori assistono a metà tra il divertito e l'indifferente, fino all'arrivo della polizia che mette fine al "gioco". Non so se il video sia autentico o costruito ad arte, ma nel caso fosse vero sarebbe veramente disturbante, simbolo di violenza e degrado a livelli preoccupanti.
 
Decisamente più ricco ed interessante il secondo museo, dedicato alla storia di Helsinki e della Finlandia in generale, dalla preistoria fino ai giorni nostri: dai chopper scheggiati dell'età della pietra, alle sfavillanti cotte di maglia medioevali, fino alle coloratissime e ormai dismesse markke finlandesi, la valuta abbandonata da qualche anno in favore dell'euro e ormai esposta in museo come una rarità. Terminata la lunghissima visita, optiamo per qualcosa di più classico: un giretto di piacere al mercato del pesce, vero cuore di Helsinki, affacciata direttamente sul Golfo di Finlandia. Si tratta del centro nevralgico della città: nelle vicinanze si trovano quasi tutti gli attracchi per i battelli che visitano le isolette circostanti, molto numerose e ricche di interessanti attrazioni turistiche. Una pista ciclabile l’attraversa completamente, nelle intersezioni ci sono i soliti semaforini e addirittura vediamo un comico cartello di pericolo recante due bici che si stanno per scontrare, invitando i ciclisti a rallentare nel punto di intersezione tra le due corsie: quando mai in Italia troviamo segnalazioni e semafori costruiti apposta per i ciclisti, costretti il più delle volte a improbabili percorsi sui cigli della strada mentre le auto rischiano costantemente di travolgerli? Nelle bancarelle si vende ogni tipo di cibaria e souvenir, tra cui gli ottimi kalakukko: li compriamo senza sapere che sono un piatto tipico finlandese. Lo scopriamo poco dopo: si tratta di squisiti panini di segale imbottiti di salmone e verdure miste, da servire caldi o freddi a seconda dei gusti del consumatore, e che ci sbafiamo con enorme soddisfazione dal primo all'ultimo boccone, sotto le tende arancioni che ci riparano anche dal sole veramente noioso. Dopo numerosi pranzi e cene in ristoranti indegni di questo nome che servono cibo spazzatura, veloce ed a buon mercato quanto si vuole, ma decisamente poco sani, questo è un piacevole diversivo: con lo stomaco non troppo pieno date le piccole dimensioni dei panini, ma pienamente soddisfatti, ci prepariamo per la visita alla storica isola di Suomenlinna, a pochi minuti di traghetto da dove ci troviamo: un arcipelago di sei isole, anch'essa protetta dall'Unesco ed inserita nei Patrimoni dell'umanità.
Nella zona sono presenti molte attrazioni come la fortezza e il sottomarino della seconda guerra mondiale, ora trasformato in attrazione turistica. Al nostro arrivo l'isola non è invasa da turisti, c'è un vento freddo e un'aria di pioggia che si sta preparando a cadere. Camminando lungo le strade ghiaiose e ciottolate circondate da mura, sbuchiamo in un campo da calcio vuoto con tanto di pallone dove ci divertiamo a suon di tiri liberi, ma dopo poco ci stanchiamo ed iniziamo la visita vera e propria. A poca distanza infatti c'è il museo principale dell'isolotto, dedicato alla fortezza. Una volta scoperto però che pagando una cospicua cifra per entrare avremmo solo visto un video che illustra tutta la storia dell'isola, optiamo per visitarla di nostra iniziativa. Lungo le stradine ciottolate si respira l'atmosfera delle guerre del Settecento, quando la Svezia, onde evitare di subire l'ondata dell'espansionismo russo, mise in mezzo la Finlandia a fare da tappo, fortificando pesantemente l'isola. I bastioni sono ormai ricoperti in gran parte d’erba, che la ripara quasi completamente dagli sguardi provenienti dal cielo, rendendo la fortezza quasi indistinguibile dalla vegetazione. In centro svetta fiera ed altissima la bandiera finlandese, come a simboleggiare l’eterna indipendenza rivendicata da questo piccolo e coraggioso Stato.
 
Il sottomarino
L'attrazione più interessante che vediamo a Suomenlinna è però il vecchio sottomarino, l'unico rimasto della flotta finlandese dai tempi della guerra. Esternamente è verniciato di rosso e bianco, un po’ sbiadito dai suoi anni di servizio sott’acqua. E’ completamente emerso ed incastrato in modo apparentemente precario su degli scogli costieri, che reggono in pochi punti quasi tutto il suo peso. Con due euro ci guadagniamo una visita in questo minuscolo ambiente vitale che ai tempi scendeva chilometri sott’acqua, tra la paura dei marinai che potevano da un momento all’altro vedere quell’angusto barattolo di lamiera riempirsi d’acqua e fiamme dopo una silurata. L’interno è stupefacente: la poca luce artificiale non permette di vedere nel dettaglio tutti i particolari, ma ciò che si vede è già sufficiente per capire di trovarsi in un miracolo di ingegneria. Ogni centimetro quadrato di parete è percorso da tubi di acciaio ognuno col relativo manometro per la pressione, si intersecano tutti in un labirinto intricatissimo. Il passaggio centrale è strettissimo e si fa fatica a passarci, nonostante siamo praticamente gli unici visitatori del momento. Un’estremità ospita i vecchi siluri, finalmente inoffensivi. I marinai non potevano vedere i siluri nemici che puntavano spediti contro il proprio sottomarino: potevano solo sentirne i boati, sperando di essere stati mancati. In caso contrario, sarebbero stati guai grossi: non riesco ad immaginare la forza di volontà e lo spirito di adattamento che dovevano possedere questi uomini, per non impazzire sott’acqua. Le cuccette dei marinai, ormai senza materassi né coperte, sono anch’esse terribilmente anguste: non v’è nemmeno lo spazio per girarsi, dovevano essere di una scomodità unica. Ringrazio chi di dovere di non essere nato in quegli anni di insensata e sanguinosa guerra.

Doppio arcobaleno
Usciti con molta difficoltà dal portellone posteriore, ci troviamo sotto una pioggia intermittente ed estremamente fastidiosa, peggiorata dal vento che la fa scorrere praticamente di lato. Il battello senza tetto ci riporta indietro verso la terraferma, mentre fortunatamente spunta un accenno di sole. Vediamo durante la traversata alcune isolette di pochissimi metri quadrati con una sola casetta al centro, tutte munite del proprio personale attracco per le barche. Ci fanno sorridere: chi mai vivrà in quel fazzoletto di terra in mezzo al mare, che sembra quasi una di quelle isole microscopiche con l'unica palma da cocco centrale tipicamente associate ai naufraghi da messaggio in bottiglia? Mentre ci immaginiamo le possibili risposte, attracchiamo e ricominciamo i nostri giri, da viaggiatori instancabili (o quasi) quali siamo, trovandoci di fronte ad un fenomeno eccezionale: un doppio arcobaleno sullo sfondo della chiesa ortodossa, il primo prepotentemente visibile, il secondo tenue ed appena accennato, entrambi che formano un arco sopra le bellissime guglie d'oro. Piove con il sole che splende, è un momento davvero particolare che ancora una volta mi fa sentire fiero di essere lì. Approfittiamo della schiarita che comincia a diventare definitiva per riposarci un po’ seduti di fronte al porto: osserviamo attentamente le navi attraccate con i ristoranti all'aperto sui ponti, le grosse gomene tutte avvolte attorno alle bitte per evitare che i battelli scappino via sospinti dalla continua brezza, e in lontananza le enormi navi da crociera, mosse dalle loro centinaia di resistenti motori diesel che le sospingeranno lungo i mari per giorni interi. Recuperate sufficientemente le forze dopo la stancante giornata, ripassiamo nella piazza del Senato per raggiungere la stazione centrale, intercettando un'esibizione di canto con centinaia di persone in piedi sulle scale ognuna col suo leggìo. Dopo averle ascoltate per un po’, insieme a tutti i turisti che affollano la piazza e si sono fermati come noi per assistere allo spettacolo, riprendiamo la via dell'albergo, dove troviamo un'altra sorpresa: i nostri vestiti, lasciati stropicciati e ammassati irregolarmente sui letti anch'essi sfatti, sono ora perfettamente stirati e piegati, sui letti di nuovo perfettamente lindi e senza nemmeno una piega. Un servizio decisamente diverso a quello a cui siamo abituati da qualche settimana, e che rischia di viziarci un po’ troppo! Un bel bagno nella spaziosa vasca per eliminare tutta la sporcizia e la stanchezza residua, e poi subito tra le braccia di Morfeo, preparandosi all'ultimo giorno da passare nella capitale.
 
Lo zoo
Questa volta la sveglia suona un po’ più tardi, non avendo scadenze precise da rispettare la mattina, così possiamo dormire un po’ più del solito. I dolori al rachide dovuti all'eccessiva morbidezza dei materassi sono ancora presenti, ma attenuati rispetto alla scorsa mattina, ci stiamo già abituando. Liberi stavolta da qualsiasi effetto collaterale di bevande alcoliche, possiamo finalmente permetterci una pantagruelica colazione, in cui torniamo a riempire il piatto più e più volte di qualsiasi cibaria presente sui tavoli, incuranti degli effetti di riflesso che probabilmente comporteranno sul nostro intestino. Il caffè viene erogato dalle macchinette in quantità esagerata per come siamo abituati: l'equivalente di una moka da tre qui vale per una persona sola come prima colazione, per cui sono costretto a buttarne via gran parte per poterlo diluire: non è possibile farsene dare di meno dalle macchinette tarate apposta per elargire quelle quantità e non di meno. La cameriera si stupisce del mio gesto, non riesce a credere che si possa buttare via del caffè, ma mi lascia fare senza obiettare. Una volta pieni da scoppiare come delle enormi larve superalimentate, da far fatica ad alzarsi dalla sedia, barcolliamo lentamente verso la camera per recuperare tutto il necessario per la giornata. Questa mattinata la passeremo allo zoo su un'altra isoletta vicina a Suomenlinna. Un legnoso battello percorre in poco più di un quarto d'ora il tratto di mare che ci separa dagli animali. Il controllore vende i biglietti direttamente sul traghetto, di vario colore a seconda della fascia di età, comprendenti traversata e ingresso. Un timido scoiattolo che corre qua e là velocissimo in preda all'agitazione, scomparendo infine in cima ad un albero, ci dà il benvenuto sulla stradina che conduce alle gabbie dei grandi felini. Il leone è in siesta pomeridiana, così come la tigre, che a malapena apre gli occhi sentendoci arrivare, ancora pesantemente assonnata. I ghepardi sono un po’ più attivi ma si muovono in modo artefatto, ripetendo gli stessi movimenti ossessivamente, probabilmente molto sofferenti per la loro condizione di prigionia. Un simpatico gatto selvatico sta dormendo appollaiato in cima ad un albero, con l'espressione beata che hanno tutti i gatti durante il sonno. Ce n'è per tutti i gusti: le alci con le loro ramificate corna, i cammelli dal morso e dallo sputo facile, le povere gazzelle costrette in poche decine di metri quadri di spazio, dove non possono certamente correre con tutta la velocità di cui sono capaci nella savana. I canguri con le loro zampette anteriori così corte che usano solo per raccogliere il cibo, e la loro buffa andatura saltellante così caratteristica. Gli emù, grossi uccelli molto simili agli struzzi ma dal piumaggio molto più scuro, che ci guardano con un'espressione bellicosa, decisamente ostile. I vanitosi pavoni, in stato di sorprendente semilibertà, che davanti a noi non si sprecano a fare la loro ruota, riservata unicamente ad impressionare gli esemplari femminili. Gli scortesi lama, notoriamente di carattere difficile, che scappano non appena ci vedono arrivare. Gli enormi bisonti, dal peso che può raggiungere la tonnellata, intenti a masticare tranquillamente la loro paglia, con quella parte anteriore così enorme in confronto a quella posteriore, e le possenti corna che ucciderebbero qualsiasi essere umano osasse sfidarli. Particolarmente divertente il branco di babbuini dal sedere rosso e prominente, estremamente agili nell'arrampicarsi su qualsiasi appiglio trovino. Il loro urlo è lancinante e stridente, a volte iniziano tutti insieme a gridare senza alcun apparente motivo. Uno di loro si porta dietro un pezzo di legno per minuti e minuti credendo di aver trovato un tesoro, per poi lanciarlo a terra spezzandolo. Rimaniamo a guardarli per diverso tempo, specie quando la porticina metallica si apre e gli permette di entrare nella giungla artificiale, dove amano darsi la caccia gridando come ossessi e rotolando sulle reti appositamente studiate per le loro acrobazie. All'interno, in gabbie di vetro, troviamo gli animali amazzonici ed africani: gli orribili scarabei ammassati a centinaia, grossi come una noce se non di più, che farebbero scappare terrorizzato anche il più coraggioso degli esploratori. I serpenti boa, in grado di stritolare un uomo in pochi secondi, ma fortunatamente inoffensivi e anche piuttosto pigri dietro i vetri. Poi una serie innumerevole di animali marini, ragni, crostacei ed echinodermi, purtroppo non c'è più tempo e dobbiamo scappare a prendere il traghetto per il ritorno.
 
La nave
Dei fotografi che ci mostrano tutti e trentadue i loro denti in un sorriso radioso ci invitano a farci fotografare poco prima di salire, è impossibile rifiutare dato che hanno messo le macchine fotografiche in posizione strategica; probabilmente tutto ciò serve ad avere un qualcosa di identificativo nel caso qualcuno si perda o abbia dei problemi di qualche genere. Due pagliacci vestiti nei modi più strani ci accolgono salutandoci calorosamente, e finalmente riusciamo ad accedere al settimo piano, quello dell'imbarco. Subito ci guardiamo intorno increduli di ciò che vediamo da ogni lato: centri commerciali mastodontici, l'insegna di un casinò in fondo al corridoio, degli ascensori con la parete trasparente in cui vediamo le persone salire e scendere da ogni dove, uomini sui trampoli a far divertire i bambini. Per la gioia degli amanti del gioco d’azzardo, c’è una quantità smisurata di videopoker e macchinette ripiene di monetine in bilico sul bordo magnetizzato e protetto dall' Intelligent Crash, che cadranno solamente quando verranno spinte da sufficienti altre monete inserite una dopo l'altra da chi pensa di essere abbastanza abile e fortunato. Un ottimo modo per perdere i propri soldi! Mentre camminiamo, un mimo vestito di bianco e nero luccicante e con la faccia pittata degli stessi colori intercetta la camminata di Davide, piazzandosi dietro di lui e seguendo ogni suo movimento, in modo insistente e piuttosto irritante. Il nostro eroe per un po’ fa finta di niente sperando che il buffo personaggio molli la presa, ma non sembra proprio che se ne voglia andare…così riesce a liberarsene simulando un impatto contro una ringhiera e piegandosi in due, da cui il mimo per seguire quella posizione avrebbe creato situazioni imbarazzanti! Congratulandosi per la trovata, il pagliaccio finalmente lo lascia in pace e va ad importunare qualcun altro. La nostra cabina è al quinto piano, il più basso a cui si trovino le cuccette: si trova in fondo ad un dedalo inestricabile di corridoi tutti uguali in cui si rischia seriamente di perdersi, ma almeno le indicazioni sono chiare, e la troviamo velocemente. E' un buco senza finestre, con due letti a castello e pochissimo spazio vitale, ma ci accontentiamo volentieri. Sempre meglio che dover dormire sul ponte come avremmo dovuto fare se avessimo scelto l'altra compagnia, tralaltro pagando il viaggio senza cabina addirittura di più.
 
Un australiano dai spiccati lineamenti orientali entra con noi, rivelando di essere il nostro compagno di stanza: è molto discreto e non dà mai fastidio, così come noi non ne diamo a lui. Non vogliamo rimanere troppo a lungo in quel container claustrofobico, la nave è troppo grande e piena di sorprese per non essere esplorata da cima a fondo. Il panorama che si ammira dal dodicesimo e ultimo piano, ovvero il ponte protetto quasi ovunque da ringhiere ricurve che impediscono agli aspiranti suicidi di buttarsi di sotto, è eccezionale: vediamo buona parte delle insignificanti isole che riempiono la baia di Helsinki, incluse quelle a casa singola, davvero buffe. Il settimo piano invece è dotato di ogni comodità e negozio possibile e immaginabile: c’è perfino un negozio "tax free" in cui non si paga l'IVA sui prodotti, istituito apposta per i turisti. Lì si possono comprare merci a metà prezzo o anche meno, come le bottiglie di vodka pura da due litri fatte pagare come quelle da 70 centilitri che vediamo nei nostri supermercati. I pacchetti di caramelle sono come minimo da mezzo chilo l'uno, sempre a prezzi stracciati. Cediamo al peccato di gola comprando una confezione di dieci barrette al cioccolato al caramello, ad un prezzo mai visto prima. Il massimo dell’esagerazione si raggiunge con i chupa chups da 180 grammi, praticamente delle clave. Ma non è certo finita qui: nella nave ci sono uffici di cambio soldi, negozi di vestiti d'alta moda, ristoranti costosissimi. Notiamo anche una bacheca sulla quale sono appese tutte le foto che ci sono state fatte alla partenza: troviamo anche le nostre! Le preleviamo subito senza informarci se fossero a pagamento o meno, vedendo che così fan tutti. Il piatto forte però arriva soltanto alla sera: non possiamo certo perderci una serata al casinò che campeggia in bella vista in fondo al corridoio con la sua grossa insegna luccicante.
 
Gioco d’azzardo
Il notevole fascino del gioco d’azzardo fa sì che sia molto difficile smettere di giocare una volta iniziato: di venti centesimi in venti centesimi, alla coloratissima macchinetta del videopoker, ci promettiamo ogni volta un tetto massimo di spesa oltre il quale non andare. Tale tetto viene però ridefinito continuamente, schiacciato dall'eccitazione e dalla voglia di rischiare di più. Ci rendiamo conto di quanto sia pericoloso lasciarsi tentare da questo tipo di giochi, se già con pochi centesimi di euro è difficile darsi un freno. Avendo conosciuto personalmente gente che si è rovinata col gioco d'azzardo, l'effetto che mi fa è ancora più forte. Dall'altra parte della sala, due croupier stanno decidendo le sorti di accaniti giocatori, soprattutto giapponesi, al black jack e alla roulette. Le loro dita sciolte manipolano abilmente le carte distribuite una alla volta e lentamente scoperte sotto gli occhi ansiosi di chi ha puntato. I soldi giocati sono appena stati fatti sparire, talvolta per sempre, inghiottiti in apposite buche nel tavolo verde. La pallina lanciata senza sbavature in direzione contraria al senso di rotazione della roulette decreterà presto se i portafogli dei giocatori si alleggeriranno o appesantiranno a fine serata, in un tiro della sorte completamente imprevedibile e per questo estremamente tentatore. Banconote da dieci, venti, cinquanta euro passano continuamente sotto il nostro naso fin nelle mani dei croupier, dall'espressione di ghiaccio completamente indifferente a tutto quel movimento di soldi e a quella febbre del gioco. È affascinante guardare queste scene di tensione silente, esplosa talvolta in contenuti gesti di stizza e di rammarico per le centinaia di euro appena buttate via, talvolta in gioiosi abbracci per le cospicue vincite ottenute. Nessuno purtroppo sta giocando al poker con le vere carte, a cui avremmo assistito molto volentieri, da cui torniamo ad aggirarci nei dintorni delle macchinette in cerca d’avventura. Un videopoker vuoto da qualche minuto attira la nostra attenzione: ha un bottone rosso lucente, che normalmente è spento. Schiacciamo quello che è il pulsante di recupero ora illuminato, solo per curiosità, e magicamente scendono cinque monete da un euro. Ci guardiamo increduli: com'è possibile che le abbiano lasciate lì? Le prendiamo mettendole in tasca senza dare nell'occhio e passiamo alla macchinetta successiva, anche lei col pulsante di ritorno del credito stranamente illuminato: altri tre euro guadagnati senza sforzo. Da quel momento in poi non facciamo altro che aggirarci come avvoltoi tra le slot machine, cercando qualche monetina dimenticata da poter puntare. Approfittiamo di quell'insperata vincita per giocarcene una parte, stabilendo però un tetto massimo invalicabile da non superare per nessun motivo, stavolta rispettato. A volte puntando venti centesimi, altre volte quaranta, si perdono un po’ di soldi e poi se ne riguadagnano il triplo, per poi perderne il quadruplo. Un andatura altalenante che ogni volta che sembra stia per finire in realtà ricomincia in modo del tutto inaspettato, vincendo cinque volte tanto dopo che l'ultima monetina utile è stata puntata. Come era prevedibile, in finale perdiamo tutto quello che abbiamo deciso di puntare, ma riusciamo ancora a recuperare altri due o tre euro, lasciati direttamente nel piatto metallico sotto le macchine da qualche distratto utente che si è dimenticato di riprendersi i suoi spiccioli.
 
La mezzanotte è passata da un po’, e si vedono le prime scene di palese ubriachezza: un finlandese piuttosto pingue, con i capelli biondi a spazzola, sta dormendo beatamente a sghimbescio sulla sua sedia. Il suo bicchiere di Bailey's è ancora pieno fino all'orlo, e il suo compagno sta tentando inutilmente di svegliarlo battendo sempre più forte col bicchiere sul tavolo, senza però darsi troppa pena per il fallimento della missione. Il ragazzone viene poi svegliato in qualche modo da altri finlandesi che scuotendolo e incitandolo riescono perlomeno a farlo rimettere seduto dritto, ma non vorrei essere tra quelli che poi tenteranno di farlo alzare. Altri individui poco raccomandabili cominciano ad aggirarsi nei dintorni, da cui vista anche l'ora tarda decidiamo di uscire dal casinò e tornarcene in cuccetta. All'entrata dei nostri corridoi vediamo un altro finlandese collassato sul fondo delle scale, completamente ubriaco, poi un altro in piedi con la faccia rossa come un peperone e l'espressione stranita che ci fissa dall'imboccatura del nostro corridoio. Prudentemente deviamo per la strada più lunga, per evitare di passargli davanti. Riusciamo a raggiungere la nostra camera senza essere aggrediti da ubriachi vaganti, la banda magnetica fa un po’ di bizze prima di consentirci di entrare, ma alla fine pulendola bene con i fazzoletti la tessera fa il suo dovere e siamo finalmente al sicuro.
 
Stoccolma
E' impossibile capire che ore sono, se non si esce da quella cabina o non si ha un orologio: la totale assenza di finestre è un po’ fuorviante, potrebbero tranquillamente essere le quattro di mattina come le due di pomeriggio col sole altissimo nel cielo, e non ce ne accorgeremmo ugualmente. In piena notte mi sveglio sentendo degli strani rumori: tendo l’orecchio per capire cosa siano quegli scricchiolii e quei suoni di paratie che paiono aprirsi e chiudersi. La nave sembra essersi fermata: scopro ora che a metà notte la nave effettua questo scalo alle isole Åland, poste a metà tra Helsinki e Stoccolma. Guardo l’orologio: sono più o meno le tre. Mi riaddormento subito dopo, senza più preoccuparmi dei rumori della nave. Alle otto ci svegliamo tutti e due con la sveglia che suona insistentemente, e presto ci leviamo dalle piccole ma comode brande per fare una veloce colazione prima di scendere dalla nave, che di lì a poco sarà a destinazione. Una volta mandato giù qualche biscotto e due sorsi di succo, la nostra abituale ed ormai odiosa colazione, facciamo un'altra veloce ispezione nella zona del casinò, sperando che sia ancora aperto per raccogliere i frutti di un'intera notte di gente che ha lasciato monetine nei videopoker. Come immaginato, è tutto chiuso. Nelle macchinette sul largo corridoio centrale però rinveniamo ancora qualche centesimo, subito giocato e logicamente subito perso, prima di veder campeggiare la scritta "Fuori servizio", annunciata da un rumore tremendo della macchinetta stessa. Probabilmente si sono dimenticati di spegnerla la sera prima, dato che è l’unica funzionante. Soddisfatti di quest'ultimo raid mattutino, recuperiamo tutti i bagagli e ci apprestiamo a seguire la marea di gente che si sta ammassando alle uscite, tutti in attesa di visitare questa città così famosa e lungamente descritta come una splendida capitale nordica. L’australiano nostro compagno di stanza ci saluta augurandoci buona fortuna, ricambiamo e lo vediamo sparire lungo una rampa di scale.
 
Prima che possiamo rendercene conto la nave ha già attraccato al porto di Stoccolma: siamo tornati in Svezia. Ripercorriamo i corridoi sospesi velocemente per raggiungere la nostra metrò, la famosa Tunnelsbana. Molto decorata e ricca di vetrine con esposizioni artistiche, un misto tra una metropolitana e un museo! Il tunnel però non ci esalta, in quanto l'arrivo è piuttosto caotico e stressante: la città e in particolare la metrò sono affollatissime, fa abbastanza caldo e intercettiamo continuamente passeggini che ci sbarrano la strada e ci rallentano pesantemente incastrandosi dappertutto, specialmente ai girellini della metropolitana. Chiedendoci come sia possibile che tutta questa gente abbia così tanti figli piccoli e se li porti sempre in giro, prendiamo il primo treno diretto alla zona del centro storico, famosa per la sua densità di edifici antichi e dall'indiscutibile fascino. L'isoletta di Gamla Stan, il vero nucleo centrale della città risalente al Medioevo, è colma di edifici sontuosi come la chiesa mortuaria di Riddarholmen, la cui svettante ed appuntita guglia di ferro tocca la ragguardevole altezza di novanta metri. Lastricata internamente di pietre tombali che ospitano i resti di tutti i re svedesi fino all'epoca contemporanea e con stampigliati sulle pareti tutti gli stemmi e trofei dei cavalieri dell'ordine dei Serafini, dà proprio l'idea di un luogo di eterno riposo. Poi viene la monolitica Residenza Reale, l'edificio più importante e rappresentativo di Stoccolma. È la vecchia abitazione dei re, che però vediamo solo dall'esterno, giallognola e squadrata. La città ha alle spalle una grande storia, e questo quartiere ne è la dimostrazione. Una carrozza trainata da cavalli che sta passando proprio in quel momento in mezzo alla piazza contribuisce ad aumentare l'aria di medioevo che aleggia densa attorno a noi.
 
Ammirati da questo quartiere così particolare, proseguiamo la nostra visita verso il gigantesco municipio, con un'alta torre che domina il mare appena adiacente. Riusciamo a salire in cima dopo un'ora intera di coda, estenuante la lentezza con cui si susseguono i turisti: si può entrare solo in pochissimi alla volta. Il panorama dalla cima comprende tutta la città, ben visibile in tutta la sua grandezza di maggiore capitale nordica, nonostante il tempo non sia esattamente soleggiato. Ci aspetta poi la visita all’enorme Palazzo Reale, dove dei soldati vestiti di verdognolo con gli stivali bianchi stanno pronunciando ordini in lingua incomprensibile, comandando il cambio della guardia e marciando a passo sicuro mentre nutrite schiere di turisti osservano curiose. L'ingresso dei quattro musei lì ospitati è presieduto da una guardia solitaria, armata di fucile a baionetta, che ha l’ordine di non muoversi nè parlare. Nonostante ciò un turista sta intavolando con lui una specie di conversazione, nella quale però le proporzioni sono fortemente sbilanciate: la guardia si limita a rispondere con qualche parola seccata, trasgredendo agli ordini per la disperazione, mentre il curioso e logorroico importuno non accenna proprio a smettere di fare domande. Deve essere già particolarmente noioso stare ore e ore in piedi senza potersi muovere, in balia di qualsiasi condizione atmosferica e senza nemmeno poter andare al bagno, se poi si aggiungono anche le seccature dovute ai turisti, è il colmo. L'interno del palazzo è magnifico: le stanze sono enormi, spaziose, riccamente decorate con ogni genere di affresco e statue bronzee incastonate negli spigoli delle pareti che sembrano tenersi alle due travi d’angolo. Ve ne sono quattro, a formare un cerchio che abbraccia tutta la stanza. Tanta ricchezza è impressionante, tutto questo sfavillare d'oro quasi abbaglia la vista.
Nei sotterranei possiamo ammirare delle corone e spade tempestate di diamanti e pietre preziose in ogni centimetro quadrato, oggetti straordinari dall'altissimo pregio, che osserviamo senza pronunciare parola. Finita la visita ai ricchissimi musei, è tempo di visitare altri gioielli, come la cattedrale di Storkyrkan. I suoi colonnati sono in mattone rosso a strisce biancastre che sorreggono le tre lunghe navate, mentre spicca il maestoso altare argentato con la consueta e splendida vetrata colorata circolare sulla cima. Perla finale è la complessa e finemente rifinita statua rappresentante la lotta tra San Giorgio e il drago, terminatasi con la sconfitta di quest'ultimo secondo la leggenda raccontata dai tempi delle Crociate, simbolo dell'eterna lotta tra bene e male. Finisce qui la prima parte della scorpacciata di storia e cultura locale che troviamo in questa affascinante città, per occuparci di cose più banali, come cercare un posto dove poter mettere qualcosa sotto i denti senza essere sorpresi dalla pioggia che continua ad andare e venire, senza mai lasciare il cielo sgombro. A complicare le cose ci si mette anche il vento freddo che spira dal mare, portando più nuvole invece di spazzar via quelle presenti. L'unico posto tranquillo e riparato che ci viene in mente per mangiare in santa pace è la stazione centrale dei treni, non avendo ancora un ostello disponibile. Dovremo raggiungere il primo alloggio alla sera, cambiando un treno e un bus, in una zona molto fuori Stoccolma. Tutto sperando che il codice elettronico comunicatoci per telefono dal gestore, causa chiusura della reception nel weekend, sia funzionante e ci permetta davvero di entrare. Accantonata temporaneamente la preoccupazione e riempito lo stomaco, ripartiamo per una visita nelle vie del centro, in particolare nel lunghissimo viale dei negozi, dove se ne vedono davvero di ogni: prima tappa è il negozio di articoli rock che subito puntiamo e setacciamo da cima a fondo con estremo interesse, per trovare qualcosa che soddisfi la nostra più o meno forte “fede” metallica. Poi tocca ai negozi di souvenir dove prendere le presine ricordo per la madre rimasta a casa, fino ai negozi di vestiti ordinari e ai ristoranti tipici italiani, da noi pesantemente snobbati visti i loro prezzi astronomici. Non vogliamo certo spendere chissà quanti soldi per mangiare una banale pizza che solo pochi giorni dopo avremmo potuto gustare di nuovo a metà prezzo in terra d'origine. Per quanto riguarda il vestire, i pantaloni che abbiamo indosso ormai da venti giorni sono più che sufficienti.
 
Le strette viuzze centrali, con qualche guglia che spunta all'improvviso altissima da dietro un caseggiato che fino a poco prima ne ha nascosto la vista, sono un piacere da percorrere, nonostante la stanchezza delle gambe. Ci concediamo un altro momento di riposo sui gradini di una statua nella piazza adiacente al golfo, dove dall'altro lato è ormeggiato l'Af Chapman, il vecchio vascello a vela ormai trasformato in ostello. Non sarà il nostro: avremmo dovuto prenotare come minimo due settimane prima per trovare posto! Proseguendo troviamo un concerto rock in atto con una band che sta suonando presumibilmente dei pezzi propri, dato che non conosco nessuna delle canzoni che stanno suonando, e questo genere musicale lo mastico abbastanza bene. Sono bravi, ma la gente è troppa e non c’è un posto dove poter stare tranquilli, al che ci spostiamo in un’altra zona. A poche centinaia di metri scopriamo che c’è l’Opera all’aperto, sotto un tendone, con l’orchestra che intona il “Và pensiero”: perfino in Svezia sentiamo cantare italiano! Il direttore d’orchestra si affanna con la sua bacchetta, piegandosi e facendola volteggiare qua e là senza sosta mentre i musicisti, visibilmente concentratissimi, eseguono i loro pezzi in modo magistrale. Applausi scroscianti.
 
Tumba
Finita l’aria, proviamo a buttarci in un’altra strada, decisamente affollata: un concerto di dimensioni enormemente più grandi si sta preparando, non sappiamo chi dovrà suonare ma dall’aspetto dei milioni di ragazzini che si sono riversati in strada possiamo capire che sarà qualche plastificato idolo del pop o qualcosa di simile, che non ci attira per niente. Spintonando e sbuffando riusciamo a liberarci dalla calca nella quale imprudentemente ci siamo addentrati, e una volta faticosamente liberi constatiamo che è tardi e ormai i musei sono tutti chiusi. Si sta facendo sera, siamo stanchi e dobbiamo pensare a come raggiungere i nostri giacigli per la notte: meglio muoversi, dovendo fare non poca strada. Alla stazione centrale non viene accettato il biglietto interrail per la tratta fino a Tumba, dove si trova il nostro alloggio, presumibilmente perchè non lo conoscono o perchè non hanno ancora aderito all'iniziativa. Ci sembra strano e vorremmo protestare ma non abbiamo molta scelta, dobbiamo fare i biglietti velocemente perchè tra pochi minuti il treno partirà senza di noi. Sei euro per una tratta di venti minuti, quando potevano essere gratuiti, sono seccanti, ma lasciamo correre. Tumba è un altro paese un po’ come Luleå, sperduto nella campagna svedese, e del quale non conosciamo nulla, se non poche informazioni confuse dateci per telefono dagli ostellanti. Venti minuti di treno, col rosso tramonto visibile dai finestrini di sinistra. Purtroppo le costruzioni su ogni lato della ferrovia non ci permettono di apprezzarlo al meglio. Appena scesi possiamo subito vedere l'autobus numero 708 che sta facendo il giro della piazza per posizionarsi sul suo spazio, pronto a caricare i passeggeri: è uno di quelli che possiamo prendere per arrivare in zona ostello. Un'altra corsa forsennata, per arrivare giù mentre stanno salendo le ultime persone, per sentirci rispondere dal nero autista, per giunta in italiano: "Qui non si fanno biglietti". Scornati e maledicendo quell'autista così impietoso, anche se non è colpa sua se non possiamo salire subito, ritorniamo sul sovrappassaggio per cercare un punto che venda biglietti dei bus. Si comprano nello stesso punto da cui siamo passati uscendo: anche qui l'interrail non ha alcun effetto per ridurci le tariffe, e dobbiamo pagare l'esorbitante cifra di diciotto euro per un tragitto di pullman della durata sì e no di un quarto d'ora.
Decisamente arrabbiati per la fregatura presa, dato che con tutti quei soldi in più spesi avremmo potuto dormire in un albergo per giunta in pieno centro, scendiamo con passo svelto per aspettare l'autobus. Speriamo che come minimo quel biglietto valga anche per il ritorno, dato che è stampato su entrambi i lati. L'autista che arriva venti minuti dopo è molto più gentile e disponibile, timbra il biglietto in corrispondenza del secondo riquadro (su sedici totali, ma noi non abbiamo assolutamente chiesto un abbonamento!), e ci rassicura di essere sull'autobus giusto. La nostra fermata è in un posto che definire isolato è un eufemismo: dobbiamo scendere in una rientranza di un lunghissimo stradone dritto con alberi e campagne ad entrambi i lati, e pochissimo altro, se non fosse per un enorme cartello che segnala un ostello della gioventù sulla sinistra. Il simbolo della casetta e dell’abete è inequivocabile. L'autista ci dà addirittura indicazioni su come arrivare, ci profundiamo in ringraziamenti e ci mettiamo in cammino, ancora imprecando per la situazione in cui ci siamo andati a cacciare. Di nuovo ci viene il dubbio: e se per caso il codice, datoci sottoforma di indovinello calcistico dalla simpatica ragazza che aveva preso la nostra telefonata, non sia valido per entrare? Meglio non pensarci. Davide indovina subito il punto in cui tagliare a sinistra, e di lì a poco scopriamo che l'ostello è parte di un camping molto ben organizzato e composto da decine di edifici, tra cui ristoranti, parchi di divertimenti e chissà cos'altro che non possiamo vedere bene data l'ora tarda. Seguendo le indicazioni arriviamo ad una costruzione un po’ dismessa, ma tutto sommato di aspetto invitante, con la fatidica tastiera sullo stipite della porta per digitare il codice. Primo numero valido, secondo e terzo validi...quarto valido, la serratura lampeggia di verde e possiamo entrare. Appesa nell’anticamera notiamo subito una busta con scritto un sorprendente "Welcome!" seguito dal mio nome. Tale busta contiene le chiavi della camera e le istruzioni su come pagare, lasciando il mio numero di carta di credito, che verrà registrato e utilizzato lunedì quando riaprirà la reception. In quale altro Paese si fiderebbero a fare una cosa del genere? Chiunque potrebbe tranquillamente lasciare fin dall'inizio un numero di telefono falso, dormire abusivamente ed andarsene senza pagare! Ma evidentemente qui nessuno lo fa…
 
La camera è riservata per noi, ben riscaldata e pulita, il che ci ripaga in piccola parte della scarpinata e dell'esorbitante costo del biglietto che ancora non sappiamo se si duplichi per il ritorno. Ci incoraggia il pensiero che probabilmente non lo dovremo rifare, non esistendo quasi certamente nulla nelle vicinanze in cui si vendano biglietti. Una veloce ottimizzazione dei bagagli e del cibo per potersene andare quanto più velocemente possibile la mattina seguente, poi ci infiliamo sotto le coperte. Io da incosciente mi copro solo col lenzuolo trascurando il piumone, convinto che faccia già abbastanza caldo: grave errore di cui pagherò le conseguenze, svegliandomi l’indomani con un incipit di raffreddore.
 
La barca ostello
I terribili biscotti alla menta e cioccolato comprati il giorno prima volano ancora incartati tra i rifiuti dopo pochissimi morsi, sono immangiabili. Ce ne andiamo curandoci di non lasciare lì nulla, per nessuna ragione al mondo vogliamo tornare in quel posto. Gli autobus, come abbiamo avuto modo di vedere la sera prima, passano molto spesso anche la domenica, per cui non ci preoccupiamo troppo degli orari. Ad aspettare il bus, su quella fermata in mezzo al niente, siamo solo noi due, infastiditi da un vento forte e continuo, e dall'attesa che comincia a farsi lunga. Abbiamo pensato anche a come cavarcela nel caso in cui il nostro biglietto venisse rifiutato: avremmo prima di tutto fatto gli gnorri, fingendo di aver ricevuto informazioni sbagliate sulla sua validità, per poi tentare di impietosire l'autista, al massimo sfoderando l'improbabile arma segreta: il qui misconosciuto biglietto interrail. Per fortuna non è necessario niente di tutto ciò: l'autista timbra il quarto spazio, lasciando il terzo inspiegabilmente vuoto così come quello della scorsa sera ha lasciato vuoto il primo, e ci lascia salire senza dire una parola. In tutto, la bellezza ventotto euro solo per il trasporto. Un furto.
Ora è tempo del trasferimento bagagli al nuovo ostello, stavolta non lontanissimo dal centro della città: dopo una fermata di metrò arriviamo nella via in cui dovrebbe essere, ma il suo numero civico non esiste. Un'indicazione lo dà sulla destra, dove non c'è assolutamente nulla: si vede solo una vaga rimessa per auto con subito dopo l'entrata di un parcheggio coperto. Piove, fa freddo e ci stiamo irritando notevolmente per queste informazioni così fuorvianti. Dopo aver girato in lungo e in largo cercando questa fantomatica via, ed aver raggiunto il colmo della frustrazione, chiediamo aiuto ad un ragazzo che sta passando: dove diavolo è questo Red Boat House? Risposta: esattamente dalla parte opposta che pensiamo! Non abbiamo idea di che posto sia, dal nome possiamo intuire che abbia a che fare con le barche, e una volta raggiunto dopo pochi minuti di camminata scopriamo che è proprio una barca! Un vecchio battello da pesca abbastanza grazioso, con la cassaforte dei bagagli in legno appena davanti al ponte di collegamento, sulla quale cresce l'erba sul tetto come nel villaggio di Oslo. Non sarà l’Af Chapman, ma è comunque una nave, quindi una cosa nuova! Solo questo salva l’ostello dalla nomina di uno tra i peggiori visitati: apparentemente carino fuori, ma dentro decisamente disagevole. Le scale per scendere al piano inferiore, dove si trova la camera a noi assegnata, sono ripidissime, strette e pericolosamente scricchiolanti. C'è un unico orinatoio per tutta la nave, munito di lavandino, mentre l'altrettanto unica tazza, in un altro bugigattolo, ne è invece priva. Che senso ha non metterlo proprio dove ce n'è più bisogno? Sorvoliamo su questo dettaglio e parliamo delle docce, praticamente aperte, l'unica privacy è data dalla tenda che si può tirare, ma non esiste porta: di conseguenza, praticamente nessuno in quell'ostello fa la doccia, tantomeno noi. La camera è l'apoteosi: due letti a castello in uno spazio che definire claustrofobico è un complimento, chi dorme sopra non ha nemmeno una scaletta per arrampicarsi ma solo un vago gradino completamente liscio ed inclinato a 45° che risulta completamente inutile. Oltretutto, una volta arrivato in cima lo sventurato può a malapena girarsi nel letto: lo spazio tra materasso e soffitto è così ridotto che scendere diventa un problema, non potendo gettare il peso in avanti. Per non parlare di quando l’occupante tenta di sollevare il busto, può farlo al massimo per una ventina di centimetri prima di battere il capo sull'irregolare soffitto intonacato in modo a dir poco grezzo. Gli oblò sono microscopici, tenuti costantemente chiusi dalla coppia di francesi che alloggia con noi: così facendo viene completamente azzerato il ricircolo d'aria e peggiora notevolmente la situazione delle mie cavità nasali, che tra non molto presenteranno il loro conto da pagare.
 
I musei
Sistemati gli zainoni negli unici vani della piccolissima camera in cui riescono a passare, ce ne andiamo preparandoci ad una intensa (e mentalmente faticosa) giornata di visite culturali: abbiamo ben tre musei da visitare. Il National Museum, un altro di arte moderna e, dulcis in fundo, il famoso museo del vascello denominato Vasa Museum. Il primo è il più classico, dedicato a quadri ed oggetti di uso comune dal primo Novecento agli anni Settanta, incluse delle macchine da scrivere che mi fanno venire una gran voglia di usarle come facevo molti anni fa per stendere i miei primi timidi pensieri da bambino decenne. Notevoli anche gli splendidi orologi intarsiati con metalli preziosi di ogni forma e colore, una delizia per gli occhi. Il secondo museo è un insieme di arte astratta e bizzarra ma che lascia intravedere significati nascosti molto profondi, in particolare di un'opera che mi colpisce moltissimo: un insieme di centinaia di foto di persone comuni, prese dalla strada, appese sul muro a formare un collage. Sotto tutte queste fotografie, altrettanti fogli di carta con stampata la descrizione di ognuna: c'è la persona che ha appena perso l'aereo pagato profumatamente perchè le indicazioni del centro turistico erano sbagliate, l'ex alcolista affidato agli assistenti sociali che ogni mattina passano a recapitare la busta con il cibo senza suonare il campanello perchè hanno paura di lui, l'uomo a cui hanno appena tolto il rene sbagliato, la donna che ha appena perso il figlio in un incidente stradale, lo studente a cui è stata rifiutata la tesi preparata in due faticosi anni, la ragazza che ha scoperto solo dopo sposata di essere sterile, e così via per centinaia di pietose situazioni tutte apparentemente slegate tra loro, ma con un denominatore comune: l'impietosa varietà delle sofferenze che si possono provare e soprattutto l'incomunicabilità della condizione umana, dove ognuno è abbandonato a se stesso senza che il resto del mondo si curi di lui. Ognuno deve portarsi il suo fardello in silenzio senza poter contare sull'altrui comprensione, che non arriverà mai ad essere totale.
 
Il vascello
Il terzo ed ultimo museo contiene un'enorme vascello del diciassettesimo secolo ancora quasi completamente intatto, lungo almeno settanta metri. C’è da rimanere senza fiato ad osservare le sue statue di legno incastonate a poppa, le reti su cui i marinai si arrampicavano per arrivare in cima all'albero maestro a fare da vedette, i paurosi fori quadrati sulle fiancate da cui i marinai nemici si vedevano spuntare le bombarde, nel terrore più puro. Ci sono più di dieci piani su cui salire, da ognuno si vede la nave in un’ angolazione diversa e sempre più suggestiva, finchè dalla cima si può ammirare in tutta la sua stupenda grandezza. Come abbiano fatto a trasportare questo mostro e rinchiuderlo entro quattro mura, è un vero mistero. Ai lati ci sono tutte le rappresentazioni in miniatura della nave e delle sue stanze, rendono abbastanza bene l’idea ma preferiamo osservare la nave vera e propria. Non ci si può salire sopra per ovvi motivi, ma non è necessario: dall’altro lato si può vedere il ponte a brevissima distanza, e ancora una volta mi sembra di essere in una scena di Capitani Coraggiosi. Come il libro, anche questa splendida nave davanti ai miei occhi riesce a farmi sognare per qualche minuto.
 
Raffreddore
Le mie elucubrazioni mentali vengono interrotte quando sento un saporaccio in fondo alla gola che so bene essere il preludio di un raffreddore forte. Deve proprio scoppiare adesso, non può ritardare di qualche giorno, accidenti? La sera torniamo a rintanarci prima apposta, per evitare di ammalarmi troppo. Metto in atto appena arrivato in ostello le mie misure preventive sempre molto efficaci per ridurre la potenza del malanno incipiente o già conclamato: bere tantissima acqua per accelerare lo smaltimento delle tossine e stimolare la circolazione nelle zone infiammate, sopportando l'effetto fastidioso che ha sulla gola malata. In ogni caso è meglio evitare il più possibile gli antinfiammatori come l'aspirina, ricchi di effetti collaterali potenzialmente anche gravi, così come tutti i medicinali in generale, che è sempre meglio scansare fino a quando proprio non se ne può più fare a meno. La cura funziona: il naso inizia a colare un po’ meno e mi sento fiducioso di poter stare bene domani. In qualche modo, nonostante il naso chiuso e il continuo fastidio del soffiarselo, riesco a prendere sonno.
 
In un orario imprecisato attorno alle due di notte mi sveglio col naso stavolta completamente chiuso, da non riuscire più a respirare se non con la bocca, e questo fa crollare un po’ di miei propositi per il giorno che viene. Rimango un po’ seduto per cercare di riaprirmi le narici, con un discreto successo, finchè non riesco a riaddormentarmi. Alle sei mi sveglio di nuovo, questa volta definitivamente. Maledico il virus che mi ha ridotto in questo stato, e questa volta sto seduto più a lungo, per evitare che il muco scenda per gravità verso la gola. Mi accorgo del caldo soffocante che c'è nel nostro angusto ambiente: i due francesi hanno lasciato entrambi gli oblò chiusi, con le tendine tirate che lasciano passare pochissima luce, vorrei alzarmi per aprirli ma non voglio suscitare reazioni nel caso si svegliassero. Posso resistere, inoltre quel calduccio mi fa bene, se non altro il naso non mi cola. Mano a mano che sto seduto, ascoltando il rumore del respiro dei miei compagni di stanza e cercando di aprirmi il naso il più possibile, mi torna un po’ di sonno, ma non cedo alla tentazione di sdraiarmi di nuovo: se mi riaddormentassi, all'ora della sveglia alle otto avrei il naso completamente intasato e sarebbe una tortura andare in giro in quelle condizioni. Così rimango seduto e mi immergo nei miei pensieri, che nelle due ore che passano prima che Davide si svegli spaziano davvero dappertutto: mi rendo conto che nonostante tutte le difficoltà io sono ancora lì, piegandomi ma non spezzandomi. Mi sento strano, come sospeso in un'altro stato di coscienza, a metà tra il sognante e il malinconico, ma con un enorme fondo di felicità che mi pervade da capo a piedi nonostante le pietose condizioni del mio apparato respiratorio. La vacanza ormai sta finendo, oggi è il nostro ultimo vero giorno di interrail, è stato tutto splendido e denso di emozioni completamente nuove, ma tra poco sarà tempo di tornarsene a casa e riprendere la vita normale, con i suoi pro ed i suoi contro.
Perdendomi in questi pensieri il tempo passa molto velocemente: alle otto, come previsto, il mio compare si è svegliato, insultando vivacemente i vicini di letto per l’ambiente asfissiante da loro creato. Abbandoniamo la fornace di caldo e sudore il più velocemente possibile.
 
Heavy metal
La pioggerellina, lieve ma costante, non ci risparmia nemmeno oggi: le speranze di passare almeno l'ultimo giorno di visita con il sole crollano definitivamente, una volta usciti all’aria aperta e dato un occhio al cielo quasi interamente coperto da nuvoloni larghi e grigiastri. Dopo una veloce colazione sulle scale di pietra vicino alla strada, ci concediamo un rilassato un giro panoramico in una zona sopraelevata della città da cui si vedono benissimo spuntare tutti gli edifici storici. Poco distante si trova la chiesa di Santa Sofia: un grazioso luogo sacro con le panche disposte a semicerchio attorno all'altare, dove assorbiamo un po’ di benefico calore e approfittiamo per meditare ancora un po’ sulle nostre odierne sorti.
 
L’unica cosa che ci rimane da vedere di Stoccolma è il Globen, dall’altra parte della città. Si tratta di un’enorme costruzione sferica, bianca e reticolata, la più grande costruzione a forma di globo del mondo intero. Ospita molti negozi al suo interno (circa centocinquanta!), in un centro commerciale enorme che usiamo solo per mangiare i nostri panini al formaggio spalmabile, individuata per pura fortuna un’unica panchina libera. Nulla di più da vedere: tra tutti quei negozi non ce n’è nemmeno uno di articoli rock o di qualcosa che ci possa stuzzicare la fantasia, da cui ci rimane solamente da ripercorrere il vialone centrale, dove potremo comprarci qualcosa che ci ricorderà per sempre questo viaggio. La scelta cade sulle magliette che raffigurano le effigi delle nostre band metalliche preferite, simbolo di appartenenza ad una cultura musicale così spesso sottovalutata ma più vasta e nobile di quanto comunemente si creda. Una volta individuate quelle giuste, ignorando beatamente il prezzo leggermente elevato, finalmente ci togliamo anche quest’ultima soddisfazione. Curiosando un po’ nei vari negozi del viale troviamo in vendita veramente di tutto: è divertente confrontare i prezzi e pensare a quante stupidate siano in vendita per non pochi soldi, come le orribili statuette dei troll delle quali gli scaffali fortunatamente non si svuotano mai dato che non le compra praticamente nessuno. Ormai sufficientemente soddisfatti e stanchi da non voler strafare, ci liberiamo da qualsiasi impegno per quel che resta della giornata, complice anche il mio naso che sta ricominciando a colare violentemente sotto l'effetto del vento e del freddo. Convinco Davide a tornare presto in ostello, non riesco più a controllare le mie secrezioni, mi sento la febbre e sto consumando fazzoletti uno dopo l'altro. Il calduccio mi cura nuovamente, fino a scivolare in un sonno leggero.
 
L’indomani prendiamo il treno per l’aeroporto di Arlanda, ormai la nostra odissea è finita. Ci rivediamo sul prossimo treno, destinazione ignota.
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